1.000 Giorni in Viaggio

Sono milleesette a dire la verità. Me ne ero dimenticato, del mio millesimo giorniversario di viaggio, fino a quando, oggi, ho controllato e mi sono accorto di essere una settimana in ritardo. Cioè, uno aspetta mille giorni, contandoli tutti, uno dopo l’altro, e poi, quando arriva il momento di utilizzare il coltellino multiuso che da quasi tre anni è inutilizzato nello zaino per stappare una bottiglia di spumante (di quelle mini eh, siamo backpackers), se ne scorda. Lo stesso in realtà è successo per il compleanno, anche di quello mi ero dimenticato, menomale che c’è Facebook. E poi Natale, Capodanno, Pasqua (in che mese è?), tutti uguali, giorni di regolare attività. Perché quando si viaggia si sa com’è, ogni giorno sembra Sabato, giusto per rubare le parole a qualcuno che forse ne sa più di me.

Mille giorni sono passati, me lo ripeto. “Magari fra tre mesi torno, vediamo come va” gli dicevo. “Facciamo sei dai”. “Aspetto fino alle feste di Natale a questo punto”. “Ormai che ci sono finisco il visto”.”Ma che fai, sei qui e non vai a vedere com’è la Nuova Zelanda?”. “Allora torno ad Agosto eh, ho già il biglietto!”. “Guarda ho un lavoro che non è male, sto un altro po’”. “Mah, senti, c’è questa ragazza..”.”Credo che starò un altr’anno”. E così via. Ce n’è stata un’altra, ultimamente “Torno a Febbraio!”, ma ormai non mi crede più nessuno.

E quante ne sono successe da quella prima notte in ostello. Ho mangiato cose che non sapevo esistessero (spesso pentendoneme, vedi vegemite), ho convissuto con personaggi con ogni tipo di storia alle spalle, e la mia interpretazione del concetto di farsi la doccia regolarmente è cambiata all’allungarsi della barba. Ci sono stati più alti che bassi, è vero, ma i giorni storti non sono mancati. C’è stata quella volta in cui mi hanno rubato tutto, quella volta in cui ho investito un canguro, quella volta in cui abbiamo litigato con Babbo Natale. E poi però c’è stata quella volta in cui ho lavorato in un gay bar, quella volta in cui mi sono tatuato una gamba da solo, quella volta in cui una lavatrice ha preso fuoco e anche quella volta in cui campeggiare, forse, non era l’idea più geniale.

In tutto ciò, nel bene e nel male, quello che conta rimane ciò che ho imparato, ciò che con questa esperienza riuscirò a portare per sempre con me. Ad esempio ho imparato che un paio di mutande si possono usare fino a quattro volte (il dentro dentro, il dentro fuori, il davanti davanti e il davanti di dietro), e che se tre signore grasse ordinano tre piatti e tu ti presenti con nove dicendo “avevo capito tre a testa..” può essere offensivo. Ho capito che basta imparare a dire “piacere di conoscerti” in coreano per non morire mai di fame, e che basta fingersi rumeni per evitare di dover parlare, ancora, delle puttane di Berlusconi. Ho saputo apprezzare il viaggio lento, via terra, ma ho anche dovuto adattarmi al condizionatore frigorifero e al Gigi D’Alessio locale degli autobus vietnamiti, così come ho imparato a cucinare, ma una pizza con l’ananas, quando ti tocca ti tocca.

Forse mi sono perso qualcosa, anche questo vero. Mi sono perso feste, compleanni, lauree, gente che sforna figli come se non ci fosse domani, mondiali (o europei?), olimpiadi, la sagra del pistacchio. Mi sono perso le vacanze a Ibiza, l’ultima moda in fatto di scarpe, non riuscendo neanche a ricordare quando le mie scarpe bianche erano effettivamente bianche. E mi sono perso anche qualche blog tour, mannaggia, se solo avessi scritto un blog di viaggi senza viaggiare. Alla fine dei conti però credo che il gioco sia valso la candela.

Ma insomma, queste storie ve le ho già raccontate tutte, altre arriveranno, senza fretta. Tutto questo per dire che qui, si ride e si scherza, ma mille giorni se ne sono andati in un volo. Non sarà tanto per molti, e non sarà il miglior modo di investire tre anni di vita per altri. Per me è stato un grande passo, quindi, se non altro, auguri a me!