Kupang, Indonesia

Kupang, nel Timor Indonesiano, è la classica città portuale asiatica. Sporca, disordinata, meta di passaggio per i pochi visitatori che sono costretti a passare di qui. Tutte parole già sentite. Viaggiare l’isola timorese è più semplice in un senso che nell’altro. Passare dall’Indonesia al Timor Est, come i vari motociclisti che via terra si dirigono verso oriente, non è difficile in quanto basta presentarsi al confine con trenta dollari americani per ottenere il visto d’ingresso. Per raggiungere l’Indonesia però, è necessario organizzarsi in anticipo, ed ottenere il visto mensile, rilasciato soltanto a Dili, che impiega tre giorni lavorativi ad arrivare. Per ottenerlo sono richieste una fototessera, ma con lo sfondo rosso, un lettera in cui si spiega perché si sta andando in vacanza in Indonesia, anche quando vacanza è veramente la spiegazione migliore che si possa dare, 45 dollari americani, e la recita di una poesia in Bahassa di fronte agli ufficiali. No, ok, questo no, ma manca poco.

Di interesse per i suoi mercati e il suo energetico commercio, Kupang è uno di quei luoghi in cui, se non ci fosse una nave diretta in un posto migliore su cui saltare, non metteresti piede neanche a pagamento. Il Lavalon Bed & Breakfast ha probabilmente inteso in senso un po’ troppo letterale la sua nomenclatura. Per 55.000 Rupie di cui non ho ancora ben capito il valore, ottieni, senza un sorriso, un letto duro e due biscotti. Lo stile minimal di cui neanche i gestori sembrano andare troppo fieri ha voluto esprimersi al meglio nella camera da me occupata, in cui oltre alle pareti rosa, le lenzuola rosa e le tende rosa, hanno messo una sedia di legno, sulla quale, oltre a sedersi per fissare le pareti rosa non ho ben capito che fare. Il gestore, alla domanda “Avete un bagno?”, ha risposto “Yes”. E basta.

Da Kupang, all’estremità occidentale dell’isola, partono i traghetti per molte delle principali isole indonesiane. Mi trattengo dal dire buona parte, perché raggiungerle tutte e 17.500 sarebbe impegnativo, anche per chi conosce pochi altri metodi di trasporto che quello via mare. I traghetti non partono ogni giorno, e chi si ferma per più di ventiquattr’ore, lo fa raramente per piacere, che non saprei dove cercare, ma più spesso perché bloccato qui in attesa della prossima nave. La mia, in direzione Larantuka parte tra qualche giorno, e così ho il tempo di ricaricare le batterie e fare alcune considerazioni su questo luogo prima di essere trasportato in 13 ore sull’isola di Flores, attraverso la nube di fumo di seconda mano che chiamano Economy Class. Viaggiando nei paesi in via di sviluppo a volte viene da riflettere sul contrasto tra la ricchezza del territorio e la povertà della società che ci vive. Ci si guarda intorno, si ammirano stupendi paesaggi e ci si chiede perché la vita in cotanta bellezza debba essere punita con altrettanta sfortuna. E poi si trovano luoghi come Kupang, un posto di merda, che almeno un po’, merita di esserlo.

Ma Kupang non è tutta da scartare. Circondata dalle tipiche colline abitate ancora oggi da diverse tribù indigene, e affacciata su un mare ricco di coralli, questa città è, apparentemente, un’ottima base per gli amanti delle immersioni. Io questo in realtà non lo so, ma così mi dicono, anche se sembra che questa sia una prerogativa di ogni isola da queste parti, quindi, ancora una volta, non un motivo abbastanza buono per fermarsi. Non sono però gli sport acquatici che incuriosiscono, ma la prelibata cucina tradizionale che affonda le sue radici in quel piatto che nelle molte bancarelle sulla strada viene indicato con le lettere RW. La carne di cane, che sembra essere così popoloare da queste parti, è il pasto tipico. Che questi cani vengano allevati appositamente, o semplicemente raccolti dalla strada non è ben chiaro, ma secondo le parole di un locale vale la pena di essere provata “Se avessi un chilo di cane non lo scambierei per due chili di manzo”. In fondo, se mangi la mucca perché non il cane?