I Cacciatori di Balene di Lamalera, Indonesia

“La settimana scorsa ne ho prese quattro, belle grosse” mi racconta il ragazzo che incontro al mercato. Non ci presentiamo, il nostro è soltanto uno scambio di informazioni. Lui vuole sapere che ci faccio qui, io voglio sapere qui cosa succede. Le sue parole puzzano di bugie da pescatore però, mi ricordano qualche amico che allargando le braccia si vantava di un pesce mai pescato. Nell’isolato villaggio di Lamalera poi, in questo periodo siamo fuori stagione, e le balene da qui non passano. “Dipende tutto dal plancton” mi spiega “se si avvicina, le balene lo seguono, qualsiasi sia la stagione”. Non so credergli, ma la cicatrice che gli macchia la guancia comunica, se non altro, esperienza, e non insisto oltre.

Arrivare a questa fetta di terra non è stato complicato, ma neanche troppo piacevole. Il traghetto Pelni che viaggia da Kupang a Larantuka impiega tredici ore ad arrivare, tredici ore nella nube di fumo riciclato che chiamano Economy Class, dove l’unica persona bianca diventa irrimediabilmente l’attrazione della notte. Da Larantuka, sulla punta orientale dell’isola di Flores, un altro traghetto trasporta un gruppo ristretto di passeggeri sulla più piccola isola di Lembata. Il porto di Lewoleba sorge all’ombra di un vulcano che scurisce il cielo con la nube di fumo che gli fa da cappello, ed è poco più che un villaggio allargato. Il bello però deve arrivare.

Io questo luogo non sapevo esistesse fino a pochi giorni fa, e nonostante le guide turistiche gli dedichino qualche riga, è stato il consiglio di un eccentrico inglese incontrato a Dili a spingermi in questa direzione. “Vai a Lamalera, io mi sono fermato una settimana, non me ne volevo andare” mi diceva disegnandomi una piccola mappa sul mio diario, raccontandomi di queste mitiche spiagge nascoste abitate dai cacciatori di balene. Preso un po’ da un’eccitazione stile Leonardo di Caprio in The Beach, prendo la mappa disegnatami dallo sconosciuto, e decido di effettuare la traversata nella direzione opposta alla quale stavo, e dovevo, andare. E se la prima impressione di questa Indonesia non è stata delle migliori, questo villaggio ha ripagato il debito.

Lamalera dista soli 65 chilometri da Lewoleba. Per raggiungerla però, ci vogliono quattro lunghe ore, su una camionetta che ad una media di 15 chilometri all’ora taglia la foresta pluviale su una strada che chiamare in brutte condizioni sarebbe farle un complimento. La pioggia che va e viene non aiuta l’autista che raramente riesce a mettere la terza su questa pista di fango, e mi viene da chiedermi se riuscirò mai a tornare indietro nel caso l’acqua cominci a battere veramente forte. I bassi, le uniche parti sulle quali gli indonesiani non sembrano risparmiare, fanno vibrare le ossa con una musica che dovrebbe essere considerata illegale, ed il clacson è poco meno che un sottofondo fisso. Qualcuno spieghi a questo popolo che non è uno strumento musicale. Le vecchie contadine che questo viaggio lo hanno fatto centinaia di volte, in compenso, ci dormono sopra.

Lamalera è un luogo surreale. Al mio arrivo il villaggio è deserto, non una persona, non un cane, non una gallina, soltanto i miei passi a rompere il silenzio in queste vie che salgono tra le case di legno e lamiera. Ogni abitazione, ogni angolo della strada, la spiaggia, sono decorate con le ossa più grandi che abbia mai visto. Vertebre della dimensione della mia testa, crani che non credo entrerebbero sul mio letto. Sono le balene, il motivo dell’esistenza di questo villaggio. Sulla spiaggia lunghe barche colorate si susseguono una dopo l’altra, ne conto una quarantina, tutte ferme in questo periodo dell’anno in cui le orche sono altrove. Scopro successivamente che il Venerdì è il giorno della preghiera, tutto il villaggio è nella chiesa che si erge sulla collina. Anche qui, come in Timor e poche altre aree, fanno parte dell’eccezione cattolica dell’Asia.

La pesca delle balene qui è una lunga tradizione, e a quelli che sono oggi i pochi abitanti di Lamalera questa è stata tramandata da molte generazioni precedenti. Quella che è un’attività considerata illegale e feroce, qui viene lasciata passare in quanto svolta soltanto per sussistenza, e quindi sostenibile. Se sia il caso di giudicare non lo so, si osserva, con curiosità, e ci si immagina come sia la vita di questi piccoli uomini che ogni giorno durante la migrazione si mettono in mare a caccia di questi giganti acquatici. Le barche in legno dipinto arenate sulla spiaggia non sono l’esatta immagine di ciò che ci si aspetterebbe venga utilizzato per tirare su qualche tonnellata di carne ed ossa. Sono strette e lunghe, come una lama tagliano le onde, ma al contempo sembrano poter venire spezzate come un fiammifero da un momento all’altro. Alla vista dei resti di questi immensi animali, delle centinaia di ossa sparse un po’ ovunque, appare alla mente una fotografia sbiadita, di un tempo in cui l’uomo non era ancora riuscito a dominare la natura. In cui si lottava ad armi pari, e nel partire per l’oceano c’era solo da incrociare le dita.

Il mercato del sabato segue un’altra lunga tradizione qui a Lamalera. Dalle montagne arrivano la frutta e la verdura, dalle coste il pesce e i polpi. A raggiungere il mercato a si impiega qualche ora di cammino, e il traffico che aumenta in questa occasione non permette di perdersi. Provenienti da tutti i villaggi circostanti, gli abitanti dei quest’area di Lembata stendono i propri teli a terra e mettono in mostra i pochi prodotti che sono riusciti a trasportare. Ci sono banane, avocado, lime, noci di cocco. Più avanti si trova il mercato degli oggetti, si trovano vestiti, sapone, prodotti confezionati. La separazione in realtà non avviene in base a ciò che viene venduto, ma al metodo di scambio. Nella prima metà infatti non circolano soldi, la frutta e la verdura vengono barattate con il pesce e viceversa, mentre nella seconda metà il commercio viene effettuato così come siamo abituati oggi, con le banconote.

A Lamalera non esitono ristoranti, o strutture per turisti, principalmente perché i turisti qui non arrivano, o almeno non in questa metà dell’anno. Le due guesthouse non hanno insegna e non si trovano indicazioni precise, ma Mamma Maria è conosciuta da tutti e basta chiedere per trovare una stanza che si affaccia sull’oceano. Qualcuno poi verrà a bussare alla porta quando il mangiare è pronto. L’elettricità, anche per chi ne dispone, non sempre viene utilizzata e il generatore viene spesso tenuto spento durante le ore diurne. Da Lembata si può proseguire lungo l’arcipelago delle isole Alor, e raggiungere l’estremo est dell’Indonesia, oppure rientrare a Flores, tornando lentamente alla civiltà. Quando, come e con cosa arrivare ovunque si voglia andare, rimane però una scommessa.