Dispacci dalla Strada #12: Patna

Non ho ancora chiaro cosa mi avesse fatto credere che prendere un treno da Jorhat a Patna fosse una buona idea. Non era una buona idea. Non era neanche una cattiva idea, non era completamente insensata, ma non la chiamerei la più luminosa delle idee che ho avuto, ecco. Non era un’idea di merda come quella volta al concerto dei Punkreas che mi sono lanciato dal palco e nessuno mi ha preso, era più una di quelle cose che mentre le stai facendo dici ma chi me l’ha fatto fare ma poi quando finisce dici vabbè potevo probabilmente investire meglio il mio tempo ma ormai è andata, lasciamo perdere, almeno questa volta non sono pieno di lividi.

Il fatto è che l’Assam è come un’imbuto. Arrivi da un’India immensa ma più ti avvicini e più il territorio si stringe, più l’accesso si fa stretto, e schiacciato tra Bangladesh e Tibet entri in questa regione per l’unica via possibile, che è poi anche quella da cui dovrai uscire. E quindi una volta visto tutto il vedibile entrando, per tornare indietro uno sale su un treno e fa tutta una tirata che non ci possiamo mica fermare di nuovo negli stessi posti due volte che poi che ci scrivo sul blog. E così la decisione di salire su un treno e ritagliare tutto l’Assam, poi il West Bengal poi arrivare in Bihar e quindi raggiungere Patna.

Sulla carta un viaggio del genere impiega circa 24 ore. La carta però in India si sa, è poco utilizzata, e quindi in realtà finisci per mettercene 34 di ore. Tu questo non lo sai e quindi sei li dopo 23 ore e 55 minuti che dici che bello fra cinque minuti arrivo finalmente mi posso sgranchire le ossa e magari mangiare qualcosa che non è stato fritto quattordici volte nello stesso olio, ma poi passano cinque minuti, ne passano dieci, venti, cento e capisci che c’è qualcosa che non va, cioè che ormai hai le chiappe che hanno preso la forma di una scatola da scarpe e ancora non sei giunto a destinazione, e proprio in quel momento ripassa l’omino dei samosa e gli dici vabbè dammene altre quattro o cinque che se aspetto di arrivare muoio di fame.

Insomma quella del treno da Jorhat a Patna poteva volendo essere studiata un po’ meglio, tipo pensando di fare qualche tappa intermedia, vedere qualcosa di culturalmente più appetibile rispetto al cellulare del compagno di scompartimento che non smette di scattarti foto sul naso continuando a pensare che non te ne accorgi anche quando vede un dito medio entrare nello schermo.

La verità però è un’altra, che i viaggi in treno in India sono bellissimi. E attenzione che io non sono mica uno che dice bellissimi così a caso, anzi, non mi piace proprio dirlo che qualcosa è bellissimo che poi cosa significa, una cosa può essere gialla, blu, quadrata, sferica, solida, liquida, ma bellissima cos’è non descrive niente, non si sa cosa vuol dire, ma levatela dal dizionario che serve solo a fare confusione. Però i viaggi in treno in India lo sono bellissimi (e con questo ho già raggiunto la mia quota annuale di bellissimi), perché anche se sono lenti, in ritardo perenne, sporchi, rumorosi, puzzolenti non sono mai noiosi. Se non sei tu ad andare dall’intrattenimento è l’intrattenimento ad arrivare da te.

Dal corridoio l’aria viene invasa da una canzone:

Hare Krishna
Hare Krishna
Krishna Krishna
Hare Hare

Hare Rama
Hare Rama
Rama Rama
Hare Hare

Lo sferragliare del treno non riesce più a coprire il volume del canto che si avvicina, fino a quando si vede spuntare un gruppo di uomini in bianco in fila, dalla fronte dipinta, sorridenti come se avessero vinto alla schedina, che urlano il loro inno a squarciagola. La sopresa però sembra essere più loro che nostra, in quanto alla vista dell’uomo bianco la processione si blocca per trasformarsi prima in un concerto privato e poi un invito ad aggregarsi alle danze. L’intero vagone é una festa. Se dovessi scegliere una religione oltre al pastafarianesimo, che è in data odierna ciò che più si avvicina ai miei ideali, probabilmente diventerei un Hare Krishna. I nuovi amici cercano di spiegarci i dettagli del loro credo, il problema è che tutti cercano di farlo contemporaneamente e ballando. Nonostante il breve e confuso incontro credo però di essere riuscito a capire l’essenza di questa religione che si riassume in soli tre comandamenti:

1. Canta;
2. Canta più forte;
3. Ripeti dal punto 1.

Il resto delle mille ore di treno scorre tra un paio di libri, mendicanti menomati, un professore universitario che ci regala una indesiderata lezione sulle risorse naturali dell’India, un’altra decina almeno di samosa fritte in olio motore e altrettanti chai che sembrano più facilmente reperibili dell’acqua potabile, fino al momento in cui arriviamo a Patna.

Ecco se cerco di trattenermi dal regalare via bellissimi, per l’aggettivo opposto non ho pietà quando arrivo in posti come Patna. Perché il bello è soggettivo, ma il brutto è universale. E Patna è una di quelle città dove non vorresti vivere, non vorresti passare, dove non ti senti benvenuto, e dove più in generale non c’è motivo di posare le suole delle scarpe se non per essere puniti per aver commesso un crimine pesante tipo genocido o cose così. Dopo esserci fatti fregare dal solito tuk tuk cerchiamo orientamento per le strade del centro, missione non semplice essendo arrivati in piena notte, e dopo essere scampati al quindicesimo cane randagio e un po’ incazzato e aver visitato almeno venti alberghi e guesthouse che non accettano stranieri perché non hanno voglia di compilare i moduli richiesti, finiamo in un hotel di lusso, e con lusso intendo lenzuola pulite, dal prezzo astronomico di ben 14 € a testa. Ma proprio in questo momento di furia, ad un istante di distanza dalla prima bestemmia per aver dissanguato le già magre casse, una voce interna mi blocca e in una calma ascetica l’unico suono che esce dalla mia bocca è:

Hare Krishna
Hare Krishna
Krishna Krishna
Hare Hare

Hare Rama
Hare Rama
Rama Rama
Hare Hare