Un Resoconto Personale del Più Grande Disastro sull’Everest

Superando i 4.000 metri d’altezza durante un trekking sull’Himalaya l’atmosfera tende sempre ad essere un po’ tesa. Raggiungendo gli ultimi rifugi sul pecorso, quelli più elevati, si comincia a sentire l’effetto dell’altitudine: la testa che gira, la fatica che arriva presto. È tutto normale. Non siamo ancora, e di rado arriveremo, allo strato d’aria sottile di Krakauer, ma questo non sembra allietare lo stato d’ansia di chi a questi territori non è abituato. Mentre chi è contento di aver concluso la propria giornata di cammino si scalda mani e pancia con una zuppa sherpa, tra i grandi gruppi organizzati c’è sempre che comincia a sentirsi male per essere salito troppo in fretta, agli angoli della sala comune qualcuno si imbottisce di Dyamox per evitare di ammalarsi e nei casi estremi c’è anche chi considera di abbandonare completamente il viaggio e scendere dove l’ossigeno è più abbondante e la pressione meno pressante.

Arrivando a Lobuche, 4.950 metri sul livello del mare, però, c’è qualcosa che non va, qualcosa che non va veramente. Questa volta a sostituire le facce silenziose di chi è in attesa che il mal di testa passi, un clima di agitazione generale si respira in ogni stanza della guesthouse. I portatori, solitamente appisolati dopo una giornata di lavoro, discutono animatamente intorno al fuoco, la cucina non riesce a stare dietro agli ordini in entrata perché distratta dalle conversazioni che sembrano coinvolgere tutti i locali. Lobuche è la penultima tappa prima di raggiungere il campo base dell’Everest, il punto di partenza per gli alpinisti che si dirigono verso la vetta, ed è proprio da qui che arrivano le prime, inconcrete, notizie della valanga. Dodici morti, tre dispersi, racconta una ragazza americana la cui guida ha ricevuto le prime informazioni.

Niente è chiaro, non c’è conferma ad alcuna voce, nonostante le tre ore di distanza dal campo siano poco più che una passeggiata per gli abitanti della regione del Khumbu. La mattina la sveglia suona presto ed un po’ scossi decidiamo di avvicinarci al punto più alto del cammino sull’Everest. Gorak Shep è l’ultimo rifugio, 5.100 metri d’altezza, a poco più di un’ora dal campo base. Qui il disegno di ciò che è successo comincia a prendere forma: sedici morti, tutti Sherpa. Proseguiamo, incrociando il traffico di nepalesi che sono di ritorno a testa bassa. Il campo base è un villaggio vero e proprio, un villaggio composto di centinaia di tende gialle ed arancioni che le verie spedizioni hanno montato a formare una serie di piccoli quartieri. Oltre alle migliaia di bandiere buddhiste, ci sono quelle americane e neozelandesi, e poi ancora i loghi di associazioni rese famose dai libri degli scalatori che hanno fatto la storia. Qui gli alpinisti trascorrono mesi ad acclimatarsi ed allenarsi prima che la scalata reale abbia inizio, durante la finestra di poche settimane che coincide con la stagione adatta per salire in vetta. Per essere il periodo più caotico dell’anno, il campo base, oggi, somiglia più ad una città fantasma. Tende scosse dal vento non danno a capire se qualcuno le stia occupando, alcuni yak passano trasportando provviste, e solo un gruppo di locali sembra intento a lavorare sulla piattaforma che sta al centro del perimetro

Dal campo base l’Everest non si vede. Ciò che si vede è invece l’immenso Khumbu Glacier, il serpente di ghiaccio e rocce che si inerpica tra i monti. Questo è il primo e più spaventoso ostacolo di chi sceglie di scalare l’Everest ed osservandolo scendere tra i picchi bianchi, l’occhio si ferma su quella che sembra una fetta di montagna tagliata di netto. È troppo grande per prenderne le misure, per capirne le proporzioni. È la valanga.

Per scalare l’Everest partecipando ad una spedizione un alpinista paga in media 60.000 dollari. Questo è il costo normale dei permessi e dell’organizzazione della missione, ma a seconda dell’esperienza delle guide si può arrivare a spenderne il doppio. Le spedizioni commerciali oggi sono aperte più o meno a tutti coloro che possano permettersi di pagare questa cifra, essere non professionisti non è più un limite grazie a riserve d’ossigeno, steroidi e corde fissate lungo tutto il percorso. Centinaia di persone scalano l’Everest ogni anno, ma perché i turisti dell’alpinismo possano partecipare alla scalata c’è un gruppo di persone che per vivere si occupa di preparare l’itinerario e rendere il sogno di molti possibile: gli Sherpa. Quando si parla di Sherpa non ci si riferisce ad un titolo o un lavoro. Sherpa è l’etnia degli abitanti del Khumbu che in questi ambienti ostili nascono, crescono e vivono, e che di conseguenza sono più resistenti agli effetti dell’altitudine. Prima della crescita dell’alpinismo come attività ricreativa, gli Sherpa non avevano molte prospettive economiche, per la maggior parte di essi la pastorizia o l’agricoltura sembrava l’unico futuro. Diventare una guida o un portatore permette invece ad uno Sherpa di guadagnare in pochi mesi quanto con un lavoro tradizionale guadagnerebbe in diversi anni. Durante la valanga del 18 Aprile gli sherpa stavano fissando le corde sul percorso per gli alpinisti. Il 18 Aprile era il giorno di apertura della stagione 2014.

Un’elicottero atterra sulla piattaforma del campo base. Gli yak scappano spaventati dal rumore. Alcune persone agganciano delle lunghe corde sotto di esso mentre un gruppo di locali con pale alla mano e caschi sulla testa si prepara per il volo. Lo invitano a ripartire. Dal campo base al ghiacciaio l’elicottero impiega meno di cinque minuti e poi altrettanti per tornare con un corpo racchiuso in una sacca rossa appeso in volo. Quattro sherpa sono stati lasciati sulla montagna a scavare, nella speranza di trovare chi manca all’appello. Questo è solo uno dei numerosi recuperi che sono avvenute nelle ultime 24 ore. L’elicottero fa avanti e indietro fino a quando il vento non si alza ed impedisce la ripartenza. Dei 16 corpi, tre non saranno mai ritrovati, dispersi dopo essere caduti in un crepaccio.

Inizia a nevicare, è l’ora di tornare al rifugio prima di rimanere bloccati in una tempesta. “Non si può mai avere abbastanza rispetto per la montagna” mi dice una guida una volta seduti intorno ad una brocca di tè. “Essere uno sherpa è troppo pericoloso” continua, “bisogna sapersi fermare, nonostante i soldi, prima che sia troppo tardi. Perché sull’Everest i giorni fortunati sono contati“.