Quella Volta in Kyrgyzstan che Sono Uscito per una Passeggiata al Lago e Sono Tornato 3 Giorni e 7 Bottiglie di Vodka Dopo

Io non so bene come ho finito per trovarmi in macchina con un uomo che sembrava aver appena vinto l’oro olimpico nei 1.500 metri stile libero in una piscina di vodka. Perché stava guidando proprio lui, il più fradicio del gruppo? E perché quel parabrezza incrinato non riusciva proprio a convincermi che fosse la prima volta?

In Kyrgyzstan funziona un po’ così. Se vuoi arrivare da A a B alzi il dito, l’indice e non il pollice, e qualcuno si ferma sempre. Anzi, l’autostop qui è così comune che a volte il dito non fai neanche in tempo ad alzarlo: un momento stai camminando per i fatti tuoi lungo la strada che porta al lago e quello dopo ti trovi seduto nel sedile posteriore di un’auto del 1983 pilotata da un uomo che non ha smesso di bere dal 1983, che va a 130 all’ora nella direzione sbagliata. Lo devo ammettere, da parte mia era un po’ ambizioso pensare di riuscire a camminare il milione di chilometri avanti e indietro da Karakol al lago Issik Kul, ma mai avrei pensato di finire per tornare tre giorni, sette bottiglie di vodka e zero docce dopo al punto di partenza. Questa è la storia di quei giorni.

La via che dal villaggio porta al lago è una noiosa strada dritta e polverosa. Stavamo camminando già da un’ora buona e ancora non si vedeva l’acqua, non era chiaro quanto mancasse o se la camminata fosse una cosa fattibile, così cercare un passaggio in quella direzione sembrava l’idea migliore. Proprio nell’istante in cui la scelta di farcela a piedi stava venendo abbandonata, spuntano da una macchina parcheggiata quattro uomini, chiaramente intossicati da fiumi di alcol: “Vere you going?“, “Al lago” gli rispondo “È lontano?“, “Naaaaaahhh, vi portiamo noi! Solo cinque minuti! Entrate in macchina!“. Ora, se il buon vecchio “Non accettare passaggi dagli sconosciuti” ha mai avuto ragione di essere passato da madri a figli è sicuramente per occasioni come questa. Accettiamo.

Dopo quattro o cinque bicchierate di vodka liscia, ci mettiamo in marcia verso l’ormai mitico Issik Kul, il secondo lago salato al mondo circondato dalla catena montuosa del Tien Shan. Le chiavi vengono prese in mano da un uomo che sicuramente non ha impiegato tanto tempo a imparare l’inglese quanto ne abbia impiegato ad assorbire vodka liscia. “Vere you come from?“, “Italy“. “Vere you come from?“, “Italy“. “Vere you come from?“, “Italy“. “Vere you come from?“, “Italy“. “Vere you come from?“, “Italy?“. “Vere you come from?“, “Italy“. “Vere you come from?“, “Italy“. Non volevo evidenziare il dettaglio che la conversazione si stava facendo un po’ ripetitiva ed era chiaro che la memoria dell’amico non raggiungesse i sette secondi nel passato, ma quando ha cominciato a tralasciare il fatto che per guidare una macchina bisogna guardare la strada o come minimo tenere il volante tra le mani ho cercarlo di convincerlo che eravamo arrivati. Anche se né io, né lui, avevamo idea di dove ci trovassimo. “Va bene, va bene, ci siamo” gli dico “scendiamo qui“. “Naaaaaaaaaaaahhhh!” risponde. “Ho sbagliato strada tornaniamo indietro” comunica faccendo retromarcia e quasi picchiando contro un taxi che arrivava da dietro. Sul sedile posteriore ero già intento a pubblicare il mio testamento su Pinterest quando noto che il nostro fidato pilota ha deciso di tagliare una curva passando da un parco erboso invece che dal tanto amato asfalto. Era ovvio che era un’idea di merda. L’angolo di giardino era una chiazza d’erba di pochi metri ma uno scalino di fronte a noi era il modo più diretto per farci capire che questo non è un terreno fatto per le ruote. E così una botta interrompe la corsa.

Il radiatore è andato, con tutto il liquido verdastro che colava per strada. Scendiamo incerti sul da farsi. Non siamo lontani dal lago, ma neanche vicini alla civiltà. “My frieeeeend!” mi abbraccia l’amico “Car broken! No problem! Vodka?“. Accetto un altro paio di scodellate di spirito e poi con una scusa riusciamo ad allontanarci un po’ e quindi darci alla fuga. È inutile tentare di spiegare che a casa mia neanche sanno cos’è il Kyrgyzstan e che forse continuare a ricevere abbracci, vodka e passaggi suicidi non è un così brillante piano, quindi decido di lasciare il luogo del delitto automobilisto e scappare prima di essere troppo intossicato per camminare. Confido che nessuno si ricorderà più di cosa è successo comunque, a parte il meccanico. Ora, da quando ho lasciato l’ostello sono passate un paio d’ore e questa sarebbe già una storia degna di un film di Nicholas Cage con i pazzi kyrgyzi, gli ettolitri di vodka, la guida criminale, l’auto distrutta, la mia fuga di soppiatto tra le colline e tutte quelle cose lì. Manca una spia russa, ma per il resto c’è tutto. Cosa è successo nei successivi tre giorni?

Arrivato nella piccola spiaggia che dà sul più azzurro dei laghi neanche il tempo di un tuffo che una famiglia intenta a smontare un cocomero sotto l’ombrellone richiama la mia attenzione. Mi avvicino, per niente insospettito dai loro sorrisi accoglienti, “Vere you come from?” chiede il padre, “Italy” rispondo meccanicamente. “Oooooooh Italy! Toto Cutugno! Vodka?” e da sotto la sabbia spunta l’ultimo quarto di un litro della vodka più economica che ormai stavo imparando a riconoscere. È inutile, non si scappa, in Kyrgyzstan la vodka è la risposta ad ogni domanda. E la risposta ad ogni risposta. E ad ogni silenzio. Non se ne esce. Me la cavo con un paio di tazzine questa volta, poi saluto e torno pochi metri più in là, ormai barcollante. Passando tre minuti e dodici secondi. È pace. Un’ombra copre il sole, apro gli occhi. Il padre, passandomi un cellulare, mi spiega “I no inglish, my sister…“. Così prendo il telefono e la sorella del buon Mirlan mi comunica che suo fratello ha deciso che non siamo autorizzati a tornare in ostello perché vuole ospitarci a casa sua. Mi vedo già ad annegare in onde di vodka, inciampare in monti di carne di montone, ripetere la stessa conversazione per la milionesima volta. È panico. Guardo Shennae. Accettiamo.

La casa di Mirlan è composta da due edifici. Nel primo si trova la sala da pranzo e quello che immagino sia il salotto. Nel secondo ci sono tre camere da letto, di cui due sono utilizzate per i frequenti ospiti. Fuori c’è un grande giardino non mantenuto, all’estremità del quale si trova una cabina di legno: il cesso. La proprieta è più grande di quanto mi aspettassi, anche se al suo interno c’è quello che si usa definire un arredamento minimale: un tavolo, una televisione, i letti. Non c’è acqua corrente, ma visto l’andazzo presumo che qui la vodka, che costa un euro a bottiglia, sia utilizzata anche per lavarsi. Mirlan mi chiede quanto tempo ho intenzione di fermarmi a Karakol. Gli dico un paio di giorni, anche se in verità non lo so, ma non mi sembra giusto sfruttare la sua ospitalità più del dovuto e penso che prima o poi dovrò ribere acqua. Mirlan mi dice qualcosa del tipo “Facciamo più due settimane“.

Mirlan è un uomo massiccio, con un sorriso genuino che non ti permette di rifiutare neanche un bicchiere. Mi chiede quando può venire a lavorare in Italia e non volendo digli “Mai”, gli spiego gentilmente che in Italia beviamo il vino e non la vodka e lui con il vino non ci tirerebbe neanche lo sciaquone. Senza battere ciglio la risposta è già stata pensata “La porto io la vodka, per me e per te“. La moglie di Mirlan è la persona che manda avanti la baracca. È una bella donna e non si ferma mai. Non c’è minuto di riposo per lei, che mentre noi parliamo dei grandi temi della vita in un inglese singhiozzante è impegnata a intrattenere la bambina, Gulia, pulire la stanza in cui dormiremo, cucinare un tanto tipico quanto terribile pasto kyrgyzo e infine, quando tutto è pronto per la cena anche andare a comprare altre tre bocce di vodka di cui non berrà neanche una goccia. Il tutto con la massima dignità, senza mai sembrare stanca, senza mai apparire forzata o obbligata, sorridendo. È una famiglia felice. Non del tutto sobria, ma felice.

La cena presenta un pomodoro e una tonnellata di carne ignota, più le tre bottiglie di vodka di cui sopra, che beviamo da delle scodelle da tè. Bere in Kyrgyzstan è qualcosa che fanno solo gli uomini mentre le donne stanno a guardare, anche se per le straniere si tende a chiudere un occhio. Lo sanno tutti che quelle sono peccatrici, tanto. Che questo sia uno stato a maggioranza islamica non si direbbe proprio dalla mia scodella che non riesco in nessun modo a svuotare. Ad ogni sorso il bicchiere mi viene riempito nuovamente e quando ormai mi brucia tutta la faccia e tutto ciò che voglio fare è piangere, Mirlan si rende conto di non avermi ancora chiesto come mi chiamo. O se lo ha fatto né io, né lui ce ne ricordiamo. Mentre eleviamo i calici per l’ennesimo brindisi così arriva la domanda “Vat’s your name?“, ma da me, che sono già slanciato con il braccio per aria, esce solo un “Cin cin!“. È inutile cercare di spiegare per ore che il mio nome è Angelo, nei giorni successivi e probabilmente per il resto della vita di Mirlan, sarò ricordato per sempre come il suo grande amico dal nome Cincin.

Alle otto di mattina, dopo una nottata passata a vedere mostri fosforescenti entrare dal tetto, qualcuno bussa alla porta. “Good morning Cincin!” dice Mirlan con la faccia un po’ ammaccata. Tra un gesto e l’altro riesco a capire che per la troppa vodka bevuta a causa dell’altissimo livello di entusiasmo derivato dalla presenza di ospiti stranieri in casa, il povero Mirlan si è sentito male nella notte e ha vomitato quattro o cinque volte. Istintivamente cominciamo a mettere insieme le nostre cose per andare via e lasciare il pover uomo in pace in questo momento di disagio psicofisico. Gli spiego che non c’è problema, che lo ringrazio per tutto ciò che ha fatto e che possiamo tornare in ostello e magari vederci dopo, quando si sente meglio, ma ho sbagliato tutto. “No, no, no!“, con altri gesti e altrettanti suoni il messaggio arriva a destinazione: nella notte Mirlan ha vomitato in casa (o su sua moglie) e quindi sua moglie ora è incazzata come un’ape e quindi non vuole dargli soldi per comprare altra vodka, di cui lui ha infinito bisogno per riprendersi dalla botta della notte precedente. Ha così bussato alla mia porta sperando che io potessi dargli un piccolo euro perché lui possa andare al negozio ed acquistare la sua colazione preferita. Mi chiede di non dire niente alla moglie, farà finta di aver trovato la bottiglia per strada. Mi sembra ragionevole, gli do un euro.

Alle otto e quarantacinque la boccia di vodka è andata, accompagnata da qualche cucchiaio di marmellata di ciliegie. Mirlan è un uomo nuovo, non pulito, ma in forma come il giorno prima. “Volete andare in montagna oggi?” mi chiede. Ecco, le montagne erano il primo motivo per cui a Karakol ci eravamo venuti. Certo, nessuno di noi è nella condizione fisica di fare un trekking ma non sembra un brutto piano. Mirlan non ha una macchina sua, quindi decide di uscire e farsi prestare un mezzo da uno dei vicini. Torna un’ora e probabilmente un’altra bottiglia di vodka dopo e mi spiega che ha trovato sia un mezzo che una persona sobria per guidarlo, però servono venti euro di benzina. Venti euro in Kyrgyzstan non sono pochi ed è certo che siano più del necessario per la benzina, però è vero anche che quest’uomo ci sta ospitando senza chiedere niente in cambio così glieli do senza pensarci troppo. Mirlan scappa eccitato per tornare con un camion, quattro bottiglie di vodka e un cocomero. Capisco cosa intendeva per benzina. Saltiamo sul cassone e partiamo. Per strada raccattiamo il resto della famiglia, il fratello di Mirlan e suo figlio piccolo e due cugini anche loro facenti parte degli alcolisti per niente anonimi.

Arrivati all’ingresso del parco nazionale ci viene chiesto di abbassarci per nasconderci e non pagare così il biglietto d’ingresso di circa tre euro. Una volta entrati cominciamo a salire su una strada sterrata, è difficile mantenere l’equilibrio. Deviamo verso un bosco e raggiungiamo la cima di un colle in cui un tavolo da pic-nic è stato montato, e dietro gli alberi si apre una vista su tutta Karakol e l’Issik Kul. La vallata in cui cresce la città è circondata da colline che brillano verde a finalmente possiamo goderci questo stupendo paesaggio per diciannove secondi interi, fino a quando viene stappata la prima bottiglia di vodka. “Vodkaaaaaaaa!” – Si sente l’urlo dall’interno dalla foresta, che è un po’ la versione kyrgyza del nostro “A tavolaaaaaaa!” e non c’è tempo di pensare a un piano di emergenza. Bisogna bere.

Non ci sono bicchieri. È panico. Mirlan sta cominciando a tremare. In un colpo di genio agguanta la bottiglia di Coca Cola di suo nipote in una mano e una bottiglia di birra trovata in terra nell’altra. In una furia spacca la bottiglia di birra contro un albero e con il vetro affilato taglia la bottiglia di Coca in due, restituendo la parte bassa al nipote ed utilizzando la parte alta come bicchiere. Le bottiglie di vodka hanno un orso bruno stampato sull’etichetta. L’orso mi guarda, fisso. Sto arrivando, mi dice. Non puoi scappare questa volta. Sono messo all’angolo. Il primo bicchiere arriva e finisce tra i cori del popolo. Poi il secondo, poi il terzo. Gli orsi continuano a guardarmi. Ridono. Maledetti. Il fratello di Mirlan dice di essere un cantante lirico. “Toto Cutugno è merda“, dice, puntandosi il dito verso il deretano. “Pavarotti, Pavarotti good!“. “È morto” gli dico. L’uomo diventa improvvisamente triste. Si alza, e cammina fino a raccogliere un fiore. Tornando lo poggia sul tavolo, trangugia una pinta di vodka e poi, dopo un “A Pavarotti!” si mette a cantare con tutto il fiato che ha in corpo.

È un momento un po’ cupo, guardare negli occhi un uomo che ha appena scoperto di aver perso il suo idolo. Però poi ci penso, e mi rendo conto di essere in Kyrgyzstan a galleggiare tra i fumi dell’alcol dopo aver accettato un passaggio omicida da un uomo che ha distrutto la propria macchina per poi finire a casa di una famiglia che si divide tra i fan e critici di Toto Cutugno per proseguire su una montagna a bordo di un camion nel quale mi sono dovuto nascondere a fare un pic-nic a base vodka e cocomero ascoltando un concerto privato di un cantante lirico che ha dato la sua sigaretta accesa al figlio di quattro anni da tenere in mano mentre si esibisce e penso che forse la cosa su cui riflettere non è tanto la tristezza della situazione ma più come cazzo ci sono finito io qui? Ma soprattutto, quando sarà la prossima volta che berrò acqua?

Sono un zombie. Torniamo a casa dove la moglie di Mirlan prepara dei ravioli ripieni di grasso. Non sono buoni, ma queste persone sono così ospitali che non riesco a non sentirmi in debito. Un’altra bottiglia di vodka appare. Da dov’è uscita? Com’è possibile? L’orso mi fissa ancora. È invincibile. Ho paura. Sono arreso. Mangiamo, beviamo, poi Mirlan esce dicendoci di aspettare che sua sorella sta arrivando e vuole presentarcela. Non che sia presentabile in alcun modo. Mi reggo a malapena in piedi. Non mi lavo da due giorni. Ho gli occhi iniettati di sangue. Una persona normale avrebbe paura a stringermi la mano per il rischio di prendersi qualche malattia. La sorella e il marito arrivano portando una torta. E due bottiglie di vodka. Sorrido. Stringo mani. Guardo l’orso con la coda dell’occhio, ora che sono arrivati i rinforzi. Per fortuna Mirlan capisce che la situazione e critica e io capisco che voleva solo far vedere che aveva stranieri in casa. Ci lascia liberi di andare a letto. Saluto l’orso. Non ho vinto, ma ho trovato una via d’uscita. Durante la notte vado almeno otto volte in bagno. Il mio corpo esplode, il bagno è ad una ventina di metri di distanza. È una corsa contro il tempo.

La mattina del terzo giorno ho bisogno di scappare. Se non me ne vado ho il presentimento che l’orso questa volta mi annienterà. Un altro giorno qui e quella cabina che chiamano bagno potrebbe diventare inutilizzabile. Radioattiva magari. Sogno verdure. Una mela. Un tè verde. Acqua effervescente naturale. Sento Mirlan che si sveglia e vado a spiegargli che no, purtroppo non posso stare a casa sua due settimane perché devo proseguire il mio viaggio. E no, niente vodka per colazione oggi, grazie. Non posso dirgli che sto in realtà per tornare in ostello perché mi impedirebbe di spendere i miei soldi per un letto. Questa famiglia di Karakol è stata la più ospitale che abbia incontrato negli ultimi anni. Senza conoscermi, senza chiedermi niente in cambio, senza poter comunicare e senza mai smettere di sorridere mi hanno dato un letto, cibo, risate, un quasi coma etilico, ma soprattutto una storia da raccontare e avrebbero voluto darmi ancora di più. Mi hanno dato tutto. E sono sopravvissuto.