Cose Molto Berlino per Persone Relativamente Berlino

A Berlino pioveva. A dirla tutta pioveva anche ad Amsterdam, da dove ero partito, ma la pioggia di Berlino, in qualche modo, sembrava appropriata. Più appropriata della pioggia dopo un lungo periodo di siccità, quasi. A dirla proprio tutta tutta, poi, non solo pioveva sia a Berlino che a Amsterdam, ma anche in tutti i luoghi che si trovano nel mezzo, tra Berlino e Amsterdam. Non sto ad elencarli, perché non li so. Adesso, non mi azzarderei a dire che questa regione del nord Europa si fosse fatta prendere da un attacco di nostalgia autunnale scaricando nove ore di pioggia ininterrotta sulla terra, perché anche di questo, dall’interno del flixbus, non potevo avere certezza. Cioè, può essere che abbia piovuto dieci minuti in ogni posto e che io capitassi di passare da ogni posto proprio in quei dieci minuti. Che poi insomma, io ero dentro l’autobus, mica fuori, non è così importante. Fatto sta, che a Berlino pioveva.

Su una scala da zero a Berlino Berlino, io mi considero una persona relativamente Berlino. Nel senso che sì, capita anche a me di andare a far finta di lavorare al computer in caffetterie organiche ascoltando canzoni di ventidue minuti dei Godspeed! You Black Emperor mentre bevo chicchi etiopi fair-trade pagati il doppio del prezzo cercando di non procrastinare tra una storia di Instagram ed un articolo sulla gentrificazione causata da quelli come me, però, ecco, ad apprezzare le qualità alternative di questa pioggia sporca in piena estate, che neanche ti bagna ma sta solo lì a fare atmosfera, non ci sono ancora arrivato. E pensandoci, sono contento di vivere ad Amsterdam invece che a Berlino, perché, secondo me, anche Amsterdam è una città relativamente Berlino, giusta che per quelli che a queste nubi grigie che ti minacciano da sopra mega-blocchi di cemento ancor più grigi non sono pronti. Per quelli che purtroppo o per fortuna, non sono ancora underground abbastanza per la pioggia di Berlino e sotto l’acqua, semplicemente, non possono fare a meno di sbruffare infastiditi. Ad Amsterdam piove e sarebbe meglio che non piovesse, a Berlino piove ed è un po’ giusto così.

E a proposito di underground, ero arrivato dopo nove ore di flixbus e volevo trovare la metropolitana al più presto per raggiungere il mio ostello dall’altra parte della città – un ostello di design costruito all’interno di un birrificio storico a Prenzlauer Berg o giù di lì – e poi uscire a incontrare una mia amica che faceva la freelancer per il Film Festival ma ora aveva smesso per trovare un lavoro di qualche tipo in una start-up di qualche tipo. Di che tipo non l’ho capito, neanche dopo averla incontrata ed essermelo fatto spiegare, ma forse nelle start-up di Berlino questi sono dettagli superficiali o forse, appunto, non sono io abbastanza Berlino da potermi permettere di capire. E insomma dovevo trovare la metro, la linea U2. E la prima cosa che ho pensato è stata che questa cosa di dare il nome di un gruppo rock alla linea della metropolitana è una cosa proprio Berlino, ma poi ci ho pensato di nuovo e no, tra tutti i gruppi Berlino non avrebbe mica scelto gli U2, piuttosto, appunto, i Godspeed! You Black Emperor. Quindi doveva essere una coincidenza, U2 probabilmente significa qualcos’altro. Peccato però.

Questa U2 non riuscivo proprio a trovarla e la causa principale dei miei dubbi direzionali era che ogni cartello indicante dove fosse la U2 era coperto dai tag dei graffitari. Da persona relativamente Berlino, apprezzo anche le qualità di questi scarabocchi vandalici, ma proprio lì dovevi farli, o, se proprio lì, non potevi almeno aspettare domani? Poi, magari, il punto era proprio quello. Chi li usa più i cartelli a Berlino? Sono passati i cartelli come forma di segnaletica stradale, adesso sono tele su cui dipingere. Non sarai mica nuovo in città? Chiunque meriti di essere a Berlino, deve essere già stato a Berlino, mica li vogliono i principianti qui, quella gente che crede di essere Berlino Berlino perché ha mangiato un kebab a Kreuzberg, che poi Kreuzberg non è mica più la Kreuzberg di una volta, dicono, quindi anche se ci vai cosa significa? Niente.

A Berlino avevo solo un giorno. Cioè, avevo quanto mi pareva, ma un giorno mi sembrava abbastanza visto che ci ero già stato e le cose che si fanno a Berlino le avevo fatte più o meno tutte, tranne la tecno e le pasticche. Così ero arrivato senza l’intenzione di fare cose, con l’idea di fermarmi per la notte e poi ripartire verso la Polonia il giorno successivo. Chissà quanto Berlino sarà la Polonia, pensavo.

Così ero uscito e mi stavano servendo due india pale ale artigianali naturali non pastorizzate di produzione locale ma non localissima perché mica vuoi la birra fatta nello smog in centro città, mentre J., la mia amica, mi stava cominciando a raccontare come fosse finita a Berlino a fare cose non chiarissime, ma comunque emozionanti ed instagrammabili. J. l’avevo conosciuta in Australia, avevamo lavorato insieme in un ristorante per tre mesi, sette anni fa. E da allora non ci eravamo né più visti, né sentiti, ma lei guardava spesso le mie Stories e io guardavo spesso le sue Stories, quindi era chiaro che un rapporto di amicizia latente era ancora in vita e incontrarci aveva semplicemente senso. In questi sette anni erano successe tante cose, mi diceva, tipo che adesso parlava sette lingue e parlava sette lingue perché aveva vissuto in sette paesi diversi, facendo cose. Da un anno più o meno era tornata a Berlino, tornata perché ci aveva già vissuto prima, perché come ho già detto non puoi arrivare a Berlino per la prima volta, deve sempre essere almeno la seconda e anche la seconda non sempre è sufficiente. E fino ad ora aveva fatto la freelancer, gestendo progetti, persone, prodotti, cose, ma adesso era in cerca di qualcosa di più stabile. La mattina successiva aveva un colloquio con una start-up, ma in alternativa le avevano offerto un lavoro su dei jet privati, che anche lì ho capito solo che avrebbe lavorato 15 giorni al mese in diverse parti del mondo, boh. L’incomprensione, comunque, non frenava l’ammirazione che provavo per lei. Di acqua sotto i ponti ne era passata dal portare piatti a nero in quel ristorante italiano di Melbourne. E un po’ ero invidioso, un giorno vorrei essere anch’io Berlino come te J., pensavo. Che brava che era stata.

Al mattino avevo comprato il biglietto per Stettino, che in polacco si scrive Szczecin, pensa te che combinazione improbabile di lettere. Ripartivo con un altro flixbus verso est, verso un posto nuovo questa volta. Giusto il tempo di una passeggiata lungo il muro a veder suonare un artista in mutande con una maschera da cavallo e un pranzo al volo, prima di tornare ancora una volta alla ricerca della mitica linea U2. Tanti ristoranti economici si susseguivano nell’est della città, scegliere non era per niente semplice, ma almeno le opzioni erano varie. Vegetariano al Buddha’s Kitchen o crudista a New Delhi Yoga? Una pera al fruttivendolo o un’anatra vegana al vietnamita anti-crudeltà? Che poi, se mi ricordo bene, in Vietnam mica esisteva l’etica. Il brodo lo facevano con galline, mucche, cani, bambini, quello che c’era. Sarà roba sperimentale o forse le cose sono cambiate, in fondo un po’ di tempo è passato. E poi appunto, io un po’ Berlino lo sono, quindi questo curry rosso con riso integrale e tofu free-range con accompagnamento di password del WiFi ci sono andato anche volentieri a provarlo. E la password qual era? Soya2016. Grande annata per la soya, il 2016.