Dispacci dalla Strada #5: Ubud

Passare quasi quaranta ore sui trasporti pubblici indonesiani dopo aver scommesso con più o meno fortuna quando, da dove, e se questi sarebbero partiti, oltre a dare alla mia schiena le sembianze di una tavola di legno imbarcata, mi ha dato il tempo di riprendere le misure di questo Paese in cui la velocità non si misura in chilometri all’ora, ma in cupole di riso al giorno. Komodo era sulla lista delle destinazioni imperdibili, ma è bastato arrivare a Labuan Bajo, per capire che, effettivamente, anche questa fosse in realtà più che facilmente perdibile. Almeno per i primi due giorni. Le navi non si muovono con questo tempo, e anche quando decidono di farlo c’è da mettere insieme almeno tre o quattro persone per poter giustificarne il prezzo. Mi rassegno, Komodo salta e si passa alla prossima isola, Sumbawa. O, almeno, si passerebbe, se non mi trovassi alle sette di mattina di fronte a un traghetto che non si muove. Perché? Perché non gli va. Almeno quella è l’impressione.

Rimbalzato da praticamente ogni mezzo di trasporto Labuan Bajo diventa la mia base per abbastanza a lungo da far cambiare la situazione, far migliorare il tempo, e farmi incontrare le persone giuste. E così, quando sarei dovuto essere già a metà strada per Lombok, mi trovo a partire per Komodo, l’isola di quelle lucertole così grandi, così lunghe e così pigre da non potersi più nascondere dalle fotocamere dei migliaia di turisti che li inseguono a ritmo di otturatore. È uno spettacolo. I monsoni mi danno tregua, il riso anche. Due giorni in barca però sembrano essere tutto quello che mi merito, dopo quarantotto ore di trekking e snorkelling in uno dei pochi luoghi protteti d’Indonesia, mi devo rimettere per strada. Due navi e qualche decina di ora di bus mi separano dalla temutissima Bali.

Da Labuan Bajo arrivo a Sape, per poi spostarmi a Bima ed essere caricato sull’ennesimo mezzo per la lunga traversata fino a Lombok. Non vedo niente, dormo, sbatto la testa contro il finestrino ad ogni buca, vado avanti a crackers aromatizzati all’aglio, come tutto il resto d’altronde. Arrivo a Mataram, la mia meta secondo quanto stampato sul biglietto. Scopro però che il bus prosegue fino a Denpasar, a Bali, e così mi nascondo, mi mimetizzo tra i seggiolini, per quanto l’unica persona bianca, biondiccia, con la barba, che legge un libro elettronico, si possa immedesimare in una scena del genere. Non mi notano, si dimenticano di me. E mi portano fino a Bali, gratis, facendomi sentire un po’ vincitore per essere stato io, per una volta, a fregare loro invece che loro a fregare me.

Kuta Beach è tutto ciò che ci si potrebbe aspettare dalla principale destinazione vacanziera dei giovani australiani. C’è chi la chiamerebbe trash, chi un luogo sfruttato per e dal turismo di massa, e chi più semplicemente non ne riuscirebbe ad apprezzare la mancanza di gusto. Ma tutte queste definizioni non rendono l’idea, perché l’unica descrizione onesta di questa area dell’isola di Bali è quella che dice chiaramanete che Kuta è una merda. Anche quando l’albergo con piscina costa 5 € a testa. O forse proprio perché l’albergo con piscina costa 5 € a testa. L’unica cosa che distingue la spiaggia da una discarica moderna è la mancanza di raccolta differenziata, e i vacanzieri grassi che passano i pomeriggi a farsi massaggiare i piedi sudati per un paio di dollari da anziane signore che altrimenti venderebbero banane cotte dal sole, è ciò che più rende l’idea di quel che arriva da queste parti. Dieci giorni di questo mi aspettavano, il tempo necessario a rinnovare il visto. Se non fosse che anche l’ufficio immigrazione sembra essere in perfetta simbiosi con il luogo che occupa, arrivando a chiedere una mazzetta tripla rispetto al prezzo normale del visto soltanto per cominciare a dargli un’occhiata. “Sono 700.000 Rupie” mi dice l’ufficiale da dietro una disordinata scrivania “Contali sotto il tavolo, mettili dentro il passaporto, non farti vedere” con la stessa espressione di qualcuno che mi stesse chiedendo un accendino per strada. E glieli avrei date le 700.000 Rupie, se non fosse che le festività per il capodanno hindu rimandano di venti giorni il processo.

Decidiamo di muoverci, continuare il nostro percorso, e dirgerci verso ovest. Il visto può aspettare, e se non può, si vedrà. Ubud cambia l’impressione che mi ero fatto di Bali, se non in meglio, almeno in meno peggio. Un luogo più a misura d’uomo, dove la natura rientra ancora nelle fotografie, e dove la cultura che si incrocia non è quella delle birre a un dollaro e mezzo. Il profumo d’incenso esce dalle porte di pietra dei santuari, e le cinquantenni in crisi di mezza età sui passi di Eat, Pray, Love scelgono il colore dei tappetini per la loro prossima classe di yoga. Tra il mecato di banane da dar da mangiare a delle scimmie fin troppo socievoli, e i venditori di lozioni per il corpo che avvicinano al Nirvana, un ristorante chiarifica in un cartello l’essenza di questa tappa attraversata dai più per non sentirsi in colpa di essere arrivati fino in Indonesia e aver visitato soltanto Kuta: Eat, Pay, Leave.