Il Mandi: Istruzioni per l’Uso

Nel non voler sempre fare la figura dell’occidentale impreparato alle differenti culture asiatiche in fatto di igene personale mi sono sempre trattenuto dal fare domande del tipo “La carta igenica non è ancora stata inventata qui? Questo ghiaccio verde è fatto con l’acqua di una pozza? Lo scarafaggio nel mio piatto è una decorazione o è commestibile? E con le piattole in camera dividiamo l’affitto oppure offro io? Il ping pong show è un torneo ufficiale o una partita amichevole?”. A volte ho rischiato la vita, altre volte, più semplicemente, una diarrea. Capita a tutti di tenersi per sé domande banali per non passare dall’ultimo arrivato (non sono l’unico, vero?), anche se a volte affidarsi al proprio istinto non è la soluzione ottimale, soprattutto quando c’è di mezzo il rischio epatite o qualcuno così gentile da non riderti in faccia, ma aspettare che tu abbia voltato le spalle.

Aspettare, in Timor, fa parte dell’esperienza del viaggio. Se non ci fosse da aspettare almeno un paio d’ore per qualsiasi cosa si intenda fare non ci sarebbe gusto. Gli autobus non si sa quando partano, tanto meno quando arrivino. Gli autisti si fermano a prendere un caffè ai villaggi di passaggio quando gli va, dimenticandosi che l’unica forma di aria condizionata in un bus con cinquanta persone a bordo e capienza trenta, è l’alito della mia vicina di seggiolino che si è addormentata sotto la mia ascella. I ristoratori sembrano essere andati nel giardino sul retro a dire alle verdure di sbrigarsi a crescere perché un cliente ha fatto un ordine. Le navi partono a mezzogiorno, ma a te dicono che partono alle dieci, a volte anche alle nove, quindi è una buona idea presentarsi al porto alle otto. Insomma, per arrivare da A a B in Timor bisogna mettersi l’anima in pace, e pregare che la tartaruga in sorpasso non causi un incidente sulla strada. Anche quando A e B sono a metri di distanza.

Per arrivare a Lospalos, non so quanto tempo ci ho messo. Il viaggio normalmente impiega tra le sei e le otto ore, ma a me ne erano volute circa dodici tra soste, studenti di inglese che mi fermano per strada per allenare la lingua e a cui devo dare un falso contatto Facebook per liberarmi da una conversazione composta dai vari “The pen is on the table”, e capre che decidono che il giorno giusto per andare in campeggio sulla strada già malmessa, è quando devo passarci io. Io a Lospalos neanche volevo andarci se proprio devo raccontarvela tutta, ci sono capitato un po’ per caso, per quanto per caso si possa capitare in un villaggio in collina in Timor Est. Cioè non è proprio come prendere l’uscita Empoli Est invece che Empoli Ovest, ecco. Ma vabbè, sono arrivato a Lospalos e alla fine dei conti non mi è dispiaciuto per niente. Ma anche questo non è quello che vi volevo raccontare.

Quella che vi volevo raccontare è la storia del mandi. È da sapere che un viaggio di millemila ore in un’area tropicale, soprattutto durante la stagione bagnata, oltre a dare l’opportunità di vedere uno straordinario paesaggio a noi completamente estraneo, arriva in un pacchetto che contiene anche la sconveniente e inevitabile umidità, che, diciamo, non permette di arrivare a destinazione proprio profumati. Che è il bello, è un’avventura, siamo uomini veri noi, non è mica un paese per ragazzine questo e bla bla bla. La realtà è che il giorno prima due ore di pioggia a Dili avevano causato un’alluvione che aveva fatto chiudere i rubinetti, e io non vedevo acqua corrente da quasi tre giorni. Puzzavo come un cane, per essere chiari, e una doccia era tutto ciò che potessi chiedere. All’arrivo a Lospalos, Belino, la mia nuova conoscenza, mi mostra le due guesthouse disponibili, una da dieci e una da quindici dollari. “Quella da dieci” gli dico io senza pensarci due volte. “Questa è la camera, questo è il bagno, qui c’è una sala per colazione..” mi fa vedere, nonostante io avessi già smesso di ascoltare alla seconda frase. Il bagno è pulito, spazioso, e qualsiasi altro aggettivo si possa utilizzare per descrivere un buco in terra. “Nell’altra guesthouse, quella da quindici, c’è la doccia?” gli chiedo pronto a dargli tutti i miei risparmi per un po’ di acqua in caduta libera “Si, ma c’è anche qui..non la vedi?” mi dice indicando un bidone pieno d’acqua e il secchiello appeso di lato.

“Aaaah, non l’avevo visto!” dico io pretendendo di non aver notato l’unico oggetto che occupava la stanza. Il mandi è il bagno tipico di questa parte del mondo. L’acqua nel bidone è utilizzata un po’ per tutto quello di cui si possa aver bisogno, dal tirare lo sciacquone, al lavarsi, al lavare i vestiti. L’utilizzo è molto semplice: si prende il secchio, si riempie d’acqua, e lo si rovescia sul proprio corpo, bagnando tutto tranne che il braccio con il quale stiamo tenendo il secchio, per il quale è necessaria un altra secchiata d’acqua, da rovesciarsi alternando la mano portante. Non tanto semplice quanto una doccia vera e propria, ma certamente non tanto complicato da poterci scrivere un post intero. Cosa che però ho appena fatto.