Dispacci dalla Strada #6: Yogyakarta

A Jogya ci siamo fermati molto più del previsto. Anche più a lungo della previsione di fermarci più a lungo. Ve l’ho già raccontato che qui misurare il tempo in ore e giorni significa dover dare una nuova interpretazione a queste parole, ma immaginare di doversi fermare per dieci giorni a Yogyakarta, il principale centro di Java Centrale, non rientrava in nessuno dei nostri calcoli.

All’Utar Losmen era tutto verde. I muri erano verdi, le lenzuola erano verdi, le finestre erano verdi e così le persiane. I divani erano verdi, le bottiglie di Bintang nel frigo erano verdi, le banane che ho mangiato a colazione erano verdi. L’acqua dell’acquario era verde, le piante che gli crescevano intorno erano verdi. La caraffa di tè era verde. Io avevo, ho, una maglietta verde. Me la sono messa quasi tutti i giorni, puzzava un po’, ma mi faceva sentire in sintonia con il luogo. All’Utar abbiamo visto arrivare e ripartire un po’ tutti gli olandesi. Dico tutti gli olandesi perché in Indonesia sono tutti olandesi quelli che vengono. Se non sono olandesi sono tedeschi, che poi sono solo olandesi un po’ peggio. C’era un inglese, ma anche lui era indiano. Faceva caldo, tanto caldo, e ho pensato che forse era tutto verde per darti l’impressione di essere in un posto un po’ più fresco, ma allora potevano farlo blu, o bianco. Ma l’hanno fatto verde l’Utar Losmen, non so perché. Verde andava bene.

Un giorno è arrivata una inglese. Era buffa. Aveva trenta e qualcosa anni e aveva una maglietta con scritto “Hippies Smell”. Non puzzava, però per il resto i requisiti ce l’aveva tutti. Siamo andati a Prambanan e camminava scalza. Poi siamo andati a un bar e ha preso un tè di ginger. E poi mi stava convincendo a fare dieci giorni di silenzio in India, così, per provare. È una cosa che fanno gli hippie, penso. Vanno in India, stanno zitti, seduti nella stessa posizione, chiusi in una stanza per un po’ e poi tornano a casa. E sono contenti. Almeno lei sembrava contenta. Ora stava andando a stare zitta da qualche altra parte, a Bali mi sembra. E mi aveva quasi convinto l’inglese, a andare a stare zitto da qualche parte. Diceva che il luogo più bello dove era andata a stare zitta era in Thailandia. Avrei potuto provare ho pensato. Ma poi Lorenzo glielo ha detto, quello che un po’ pensavo anch’io “Lui non ha mica bisogno di andare da qualcuno che gli dica di stare zitto, lo fa già per conto suo”. È vero, un po’.

All’immigrazione mi hanno rimbalzato almeno tre o quattro volte. Abbiamo aspettato e aspettato ancora perché qualcuno alzasse un braccio e mi timbrasse il passaporto. Una volta era chiuso. Una volta volevano uno sponsor, così sono dovuto tornare indietro a comprare un amico. Poi per i pantaloncini, perché sono islamici qui e con i pantaloni corti non ti fanno entrare. Sono fatti così, che gli vuoi fare. Non è una religione da Indonesia l’Islam, è più da Valle d’Aosta, o qualcosa del genere. Poi mi hanno detto torna domani, così. Erano stanchi, era quasi mezzogiorno, si capisce. Poi volevano le impronte digitali. Poi la foto. Poi anche una stretta di mano. Sudata. E alla fine questo visto me l’hanno dato. Ero libero, libero da Yogyakarta.

All’Utar era rimasto solo un olandese. Era altissimo e ci aveva raccontato che i preservativi indonesiani erano troppo piccoli per lui. Non avevamo capito se si aspettasse dei complimenti o avesse bisogno di aiuto. Era un problema. Ce l’ha presentata la sua fidanzata indonesiana un giorno. Anche lei era troppo piccola per lui. Non sembrava essere un problema. Non sembrava esserci scelta. Voleva fermarsi a vivere li lui, l’olandese, gli piaceva proprio Yogyakarta. Voleva trovare un lavoro, una casa, e stare lì, a Yogyakarta, per sempre. Magari aprire qualcosa, fare qualche figlio. Ma poi ha cambiato idea, il giorno dopo, e se n’è andato. Anche noi ce ne siamo andati, guardando indietro a Yogyakarta come un posto felice, un posto caldo ma accogliente, disordinato ma comodo, ricco ma economico. Un posto verde, ecco. Verde, questo è il termine adatto.