Una Storia di Merda

Ok, non sono certo qui per andarne fiero o farne un vanto, ma, dato che ho messo tra le mie priorità il riportare tutti gli eventi che segnano questo viaggio, mi trovo oggi in questa sede a condividere con voi una intensa storia di coraggio, amicizia, dramma e avventura che segnerà, o sporcherà qualcuno vorrà dire, le pagine di questo blog, e la mia memoria, per l’eternità.

E così mi è venuta la diarrea. Che va bene. Normale attività sul continente asiatico. Anzi, dirò di più, la aspettavo. Due mesi di assenza di movimenti inaspettati possono essere dichiarati un record personale quando ciò che si immette nel proprio corpo quotidianamente è distante dall’essere considerato legalmente vendibile dati gli standard igenici. Insomma, succede. Però mi sentivo meglio già dopo un paio di giorni e proprio spinto da questo salutare entusiasmo ho deciso che era un’ottima idea prendere un autobus di sedici ore per tagliare la fitta ma non piatta foresta pluviale sumatrese. Sono un uomo in fondo, so tenere sotto controllo il mio corpo. Sono un viaggiatore duro ed ogni ostacolo è uno stimolo. O almeno questo è quello che penso per i primi quattordici secondi, finché il mio intestino non ricomincia a minacciarmi con un pugnale alla gola. Mi sto cagando addosso.

Sulla via per una esplosione gastrica decido di prendere in mano, per la prima volta nella mia vita, il destino dei miei compagni di autobus, bloccando l’autobus e salvandoli dal nemico più grande, il mio intestino appunto, che è a momenti di distanza da lanciare un attacco batteriologico su tutti noi. Spiego all’autista che è più per il suo bene che per il mio che l’autobus si deve fermare, gli dico “Mangio il vostro cibo, parlo con la vostra gente, prendo i vostri autobus di merda (che stanno per diventare ancora più di merda), mi faccio fotografare da sette milioni di studentesse quindicenni incappucciate e sono praticamente su ogni profilo Facebook della Nazione, il minimo che puoi fare per me è lasciarmi andare al cesso”. E così fa, si ferma. In un villaggio. Che è in realtà un’unica baracca.

“Toilet?” “No.” “Per favore?” “No.” Nella gentilezza tipica di chi se ne sbatte le palle mi viene indicato un campo piatto e roccioso in cui secondo gli abitanti del luogo è appropriato defecare. E così corro, corro sotto la luce della luna in cerca di un buon punto in cui liberarmi. Appoggiando un piede dopo l’altro sui sassi bagnati di brina sento una voce guidante alle spalle di qualcuno che sembra conoscere la posizione ideale “Vai più avanti, prosegui”. E io proseguo, vado avanti, dando fiducia all’esperto della notte. Finché non metto piede su una pozza di fango. E non solo ci metto piede, ma affondo. Prima una gamba, poi l’altra. Poi il resto del corpo. Vado giù, sprofondo in un mare di terra liquida. Ed è così che mi ritrovo sommerso fino alla vita di quel che spero sia soltanto fango, in mezzo alla notte, in mezzo al niente, nella giungla, a Sumatra. Perdo l’infradito che risucchiato nell’abisso appiccicoso che mi circonda mi abbandona dopo anni di onorata carriera. È un lutto, ma non è tempo di piangersi addosso. Devo ancora cagare. Così mi arrampico, mi dimeno, emergo dall’oscurità e, finalmente, rimetto piede sulla terraferma somigliando ad un gelato Magnum, marrone fuori, ma bianco dentro, con altre dieci ore di strada su un seggiolino fin troppo stretto. Ma non importa, il momento di fare ciò per cui fin qui son giunto è arrivato. Di tutto il resto ci si potrà curare più tardi, mi dico mentre cerco di posizionarmi nell’angolazione giusta per effettuare lo scarico. Ma il resto arriva in anticipo. All’orizzionte centinaia, migliaia, o forse più luci lampeggianti mi vengono incontro. Una miriade di torcie luminose si avvicinano nella mia direzione, abbagliandomi sul più bello, illuminandomi dove, se non in particolarissime occasioni che non vorrei rendere pubbliche, neanche il sole arriva a battere. Perché non hanno cessi qui, ma lampadine tascabili si. Forse ha senso.

Ed è così che si conclude la mia novella, con un gaio gruppo di indonesiani viaggianti fermi a fissare l’unico bianco in circolazione seduto su una piccolissima sedia immaginaria, intento a scaricare in maniera furtiva una troppo liquida materia fecale dietro un albero di palma, scalzo, triste e coperto di fango. Con le sue ciabatte perse sul fondo dell’oscuro abisso, seguite a poca distanza dalla sua ormai annegata dignità.