Note da Lospalos, Timor Est

“Mi hanno appena tolto la patente” mi racconta Belino quando lo incontro spingendo il suo motorino al lato della strada “sembra quasi che la polizia faccia sul serio in questi giorni”. È recente la notizia dell’abbandono del Timor Est da parte del braccio armato delle Nazioni Unite, che nei passati dieci anni si era stabilito qui per mantenere il controllo in questo territorio così fragile. Dall’indipendenza, quella vera, nel 2002, riuscire a camminare con le proprie gambe non è stato un passo semplice, e soltanto un paio di mesi fa è arrivata la decisione di restituire il controllo delle strade alle autorità locali. “Ramos Horta, il Presidente, ha vinto il Nobel per la pace, tutti sembrano inchinarsi a lui” continua la mia nuova conoscenza “ma dobbiamo ricordarci che lui, come tutti gli altri politici che stanno lassù oggi sono veterani, vengono da un esercito che ha combattuto una guerra brutale. Sono bracci di ferro, e vogliono essere rispettati, forse troppo”.

Trovarmi a parlare di politica nel piccolo villaggio di Los Palos non è stata una scelta programmata. Da Dili, la capitale, la decisione iniziale era quella di percorrere tutta la costa nord passando da Baucau, fino a raggiungere la fine della strada a Com, l’agglomerato di pescatori che si affaccia sull’oceano, e fermarmi lì per qualche giorno prima di tornare indietro e superare il confine con l’Indonesia. Viaggiare in Timor Est però non permette di fare piani, in particolar modo quando ci si affida ai mezzi pubblici. Gli autobus colorati che della musica folk portoghese a tutto volume non si vergognano neanche un po’, partono “di mattina”, impiegano “qualche ora” ad arrivare, e si prendono “da qualche parte sul waterfront”. Arrivare a Baucau, quella che con i suoi 16.000 abitanti rappresenta la seconda città timorese, costa quattro dollari, e calcolando capre sulla strada, fermate ai villaggi, buche nella strada, il viaggio impiega tra le tre e le quattro ore.

La mancanza di infrastrutture in Timor non è certo il primo dei problemi quando le cose che mancano sono le più semplici. Non esiste una moneta locale, e i pochi dollari americani in circolazione non fanno che passare tra le stesse mani. Non esistono prese della corrente standard, a volte capitano quelle australiane, a volte quelle inglesi, a volte quelle italiane. I mercati si limitano quasi sempre ad un gruppo di lenzuola ricoperte di frutta al bordo della strada, e con almeno cinque lingue differenti parlate anche i locali fanno confusione tra di loro. Non si trova una cartolina da poter inviare a casa, tantomeno un ufficio postale. Come si arrivi a questo punto è una domanda che ci si pone se non si conosce la terribile storia di questo angolo di mondo. Da quattrocento anni di colonizzazione portoghese il Timor ha ereditato molti usi e costumi, ma è soltanto il periodo dagli anni settanta in poi che ha segnato il Paese in modo più pesante. Dopo la decisione del Portogallo di abbandonare la Nazione a sé stessa, l’Indonesia, con cui il Timor condivide l’isola, pensò bene di approfittare del momento di debolezza per effettuare un’invasione. Supportata anche dagli Stati Uniti, la presenza indonesiana è stata un vai e vieni di guerre brutali, causando la scomparsa di almeno un quarto della popolazione timorese solamente nei primi quattro anni. Sono stati necessari ventiquattro anni per far sì che il Timor Est potesse considerarsi un paese veramente libero, ma come ha dovuto imparare a suo discapito, non basta dichiararsi indipendenti per esserlo veramente.

A Com non sono riuscito ad arrivarci. L’unico modo per raggiungere la mia meta dalla polverosa Baucau sembrerebbe essere il noleggio di un intero microlet, un minibus utilizzato nelle città per i trasporti interni. Il mio autista era pronto ad abbandonare tutte le persone che lo stavano aspettando lungo la strada per trasportarmi a Com per 15 dollari, peccato che 30 dollari per cinquanta chilometri siano al momento fuori budget. Un po’ innervosito, scelgo Los Palos. Avrei potuto fermarmi a Baucau, ma mi stava antipatica, aveva rovinato i miei piani. Il termine villaggio è ciò che più si addice a Los Palos, un paesino in collina senza alcuna attrattiva turistica se non lo stupendo paesaggio che si è costretti a tagliare per arrivarci. Una verde foresta di palme si fa strada tra le piccole cascate che bagnano il terreno, radure erbose ospitano cavalli, buoi dalle corna immense e più avanti risaie che salgono fino all’ombra degli alti alberi, che crescono fino al rotondeggiante orizzonte.

“Dall’indipendenza i governi che ci hanno aiutato sono stati moltissimi, tante donazioni sono arrivate da tutto il mondo” continua Belino mentre mi mostra dove si trova l’unica guesthouse economica del villaggio “ma sai come va nei paesi poveri, arriva 10 al governo, ma questo passa solo 5 ai vari distretti, che a sua volta passano solo 3 ai villaggi. Al popolo, se va bene, arriva 1”. “Non succede soltanto nei paesi poveri, te lo posso assicurare” gli rispondo io. Los Palos, casa del gruppo indigeno dei Fataluku, con l’arrivo dell’indonesia fu quasi raso al suolo. I giovani mi dicono che non c’è rancore, i più anziani, come Terezinha, incontrata pochi giorni prima a Dili, oltre il confine preferiscono non metterci piede. “Oggi dobbiamo solo pensare a studiare, se vogliamo uscire da questa situazione, se vogliamo che qualcosa cominci a funzionare, dobbiamo darci da fare”. Non è chiaro al visitatore se la cicatrice del Timor sia completamente guarita, l’unica cosa che appare è che tutti siano troppo impegnati a pensare al futuro per perdere tempo con un passato che non si può far altro che dimenticare.

Belino tira fuori un macete. “Hai mai provato quel frutto?” mi chiede puntando il dito verso un albero alto almeno tre volte noi. “No, non cre..” non riesco a finire la frase che lui è già a metà arrampicata. Scende con qualcosa che somiglia ad un pompelmo, lo divide con un colpo secco, e me ne dà la metà “Non ci manca niente qui, il cibo più buono cade dagli alberi, lo buttiamo via. Il Timor è ricchissimo, il problema è che nessuno lo sa”. O la fortuna, forse.