L’Ultimo Giorno d’India

L’Happy Guesthouse di Bodhgaya non è un posto felice come vorrebbe far credere il nome. Il motivo per cui la gente sceglie di fermarsi qui è il prezzo, 300 rupie contrattabili come tutto il resto in India, non certo la qualità del servizio. È l’emblema della bettola indiana, con un bagno che viene pulito ogni 29 Febbraio, lenzuola delle cui macchie non si vuole sapere la provenienza ed elettricità intermittente giorno e notte. Eppure, nonostante tutto, non era la prima volta che sceglievo di dormirci. Ero già passato da Bodhgaya mesi fa e sapevo a cosa andavo incontro. Per una notte può andare. Dall’ultima volta aveva addirittura aperto un secondo albergo nella porta accanto, la Happy Guesthouse 2, forse per rubare la fama di “è un buco, ma almeno costa poco” della Happy Guesthouse numero uno. Non era la prima volta, ma sarebbe stata l’ultima. Dopo cinque mesi, lascio l’India.

L’India mi ha fatto incazzare tanto quanto mi ha fatto ridere. Questa esperienza tragicomica è stata una corsa continua e senza meta, attraverso città troppo affollate, trani arrugginiti, persone colorate e troppi “perché?” che non hanno ricevuto risposta. L’India ha portato alla luce uno spettro di emozioni talmente vasto che è inutile tentare di catalogarlo, fare ordine. È stato bello quanto brutto, faticoso quanto piacevole, estremo quanto umano e ha messo in discussione, ogni giorno, qualsiasi certezza che credevo di avere.

La sveglia suona alle cinque, troppo presto per riflettere su cosa rimane dietro e cosa arriverà dopo. La sveglia suona alle cinque perché per arrivare al confine con il Nepal, e magari superarlo, ci vuole più di una giornata intera di viaggio e io penso, ingenuamente, di poterla strizzare tutta entro il tramonto e vincere per una volta tutti gli intoppi indiani. Non è così. Alle cinque, per le strade di Bodhgaya, i primi monaci si dirigono a testa bassa al Tempio di Mahabodhi per la meditazione mattutina, ma oltre a quello dei fedeli il traffico è poco. Trovare un tuk tuk è più complicato del previsto e così è contrattare data l’assenza della concorrenza. “Per la stazione di Gaya?“, “300 Rupie” risponde il guidatore in modo impassibile, come se qualcuno potesse quasi credere che si tratti di un prezzo onesto. “Facciamo 100“, “No, no, no, impossibile. 250.“, “Ti do 150 se partiamo subito e non ti fermi a raccattare altre cinque persone“, “No, no..imposs..“. Mi giro senza rispondere e inizio a camminare, al terzo passo arriva un “Va bene, va bene, andiamo..

Arrivare a Raxaul, sul confine, significa dover fare tre cambi di mezzi di trasporto, forse di più. Non è chiaro da dove gli autobus partano, quando partano, quanto ci mettano e quanto costino. Non essendoci orario si può solo pensare di essere in ritardo e nonostante il nostro accordo, ogni chilometro in tuk tuk è una sosta per far salire un nuovo passeggero. Arriviamo alla stazione dei bus, pago 100 rupie invece di 150 perché così non si fa, litigo con il conducente per 10 minuti e poi ci separiamo, ognuno per affrontare la propria giornata nel traffico. Mai e poi mai in India sceglierei di viaggiare in autobus se il treno è disponibile. Qui però il ragionamento è un po’ più lungo del solo “come arrivare più rapidamenta da A a B”. Da Gaya a Patna ci vogliono 3 o 4 ore sia in treno che in autobus. Da Patna al confine i treni però non ci sono e l’autobus ci mette 8, 9 o 10 ore, a seconda di quanto ha bevuto l’autista. Viaggiando in treno fino a Patna quindi dovrei poi trovare un altro tuk tuk, contrattare, farmi portare dove vuole lui, sentire le sue scuse per cui a causa del traffico ha dovuto fare un strada più lunga e quindi vuole più soldi, litigare, e soltanto dopo raggiungere la stazione degli autobus da quella dei treni. Potrebbero volerci ore. Giorni. Settimane. Così prendiamo l’autobus, che in teoria dovrebbe arrivare direttamente alla stazione giusta, in tempo per la coincidenza che ho sognato durante la notte, ma che non so se effettivamente ha ragione di esistere.

Se un giudizio è difficile da dare, di una cosa soltanto sono sicuro riguardo questi cinque mesi di viaggio: sono contento di ripartire, di andare via. Per la prima volta forse, sento di aver effettivamente concluso un capitolo, di aver esaurito ciò che il viaggio aveva da offrire. Questa volta non c’è un biglietto d’uscita, un visto che scade, un amico che mi aspetta e per cui devo lasciare il percorso a metà, per cui devo chiedermi cos’altro avrei potuto fare o rimpiangere il fatto di non avere più tempo. Dall’India ho ottenuto tutto quello che speravo di ottenere e probabilmente molto di più, ho percorso più chilometri di quanti avessi previsto e semplicemente sento che quello che ho fatto è, per una volta, completo. Un cerchio si sta per chiudere ed è il momento di dedicarsi alle prossime tappe.

L’autobus da Gaya a Patna impiega sette ore. Non tre, non quattro. Sette. Un festival blocca le strade che tagliano un villaggio, anche se nessuno sembra capire che suonare il clacson non fa muovere la fila più veloce. Nonostante centinaia di mezzi, autobus, macchine, trattori, carri e motorini, siano tutti immobili, nella stessa situazione, impossibilitati dal procedere perché un intero villaggio sta occupando l’unica strada a disposizione per celebrare non è chiaro cosa, tutti tentano di sorpassare. Non c’è una logica o alcun tipo di vantaggio in un sorpasso di successo, anzi, probabilmente contribuisce a rendere il blocco ancora più bloccato, ma vaglielo a spiegare agli indiani. Il festival, per quanto si possa osservare dal finestrino, sembra essere un luogo molto più piacevole in cui trascorrere una giornata che l’interno di un autobus. Bambini rincorrono gomme di bicicletta fatte rotolare sui prati, una lunga fila di bancarelle dà da mangiare gratis a tutti in centinaia di piatti usa e getta, e decine di donne in saree colorati obbediscono esattamente a quelle istruzioni usando e gettando i piatti sulla verde erba in cui i bambini stanno giocando. Da delle casse montate su un trattore arriva la musica, quella di bollywood che ha senso solo nei film ma che qui usano un po’ ovunque. È una bella atmosfera.

Questo sbattersene le palle di tutto, per me, è il più grande simbolo dell’India. Non c’è ieri e non c’è domani, c’è solo l’oggi, l’adesso. E l’unica preoccupazione è rendere quell’adesso il più vivibile possibile. Ho una carta in mano? La butto dal finestrino e scompare. Non c’è bagno? Mi abbasso i pantaloni e piscio dove sono. Qualcuno è fermo in fila davanti a me? Lo supero. Non c’è spazio? Ci stringiamo. Voglio fare la foto a quel turista nonostante mi abbia detto “No, no, no” e abbia il dito medio rivolto verso di me? Gliela faccio. Il treno è in ritardo di dodici ore? Aspetto. Mi viene sonno? Mi sdraio in terra e dormo. La vita in India è semplice. Non esistono conseguenze, non c’è ansia o pressione. La confusione, il caos, lo sporco e la maleducazione sono tali solo per chi vuole vederli così, per chi se ne rende vittima. Nei miei cinque mesi di permanenza mai una volta mi è capito di vedere un litigio, una rissa, una discussione che durasse più di qualche minuto. Non c’è rancore, frustrazione, paranoia. Le cose sono come sono, perchè complicarsi la vita per cambiarle?

La stazione degli autobus di Patna è un campo fangoso e disorientante. Patna è una delle città più antiche dell’India e ancora non hanno imparato a parcheggiare. Sono le due di pomeriggio, è tardi, e capire da dove si parte per Raxaul diventa complicato quando tutti i bigliettai ti puntano verso il proprio autobus solo per venderti il biglietto. Non importa dove vanno o dove vuoi andare. Trovata la piattaforma giusta, cerco di capire tutti i quando, i dove e i come da un uomo che ha poca voglia di parlare. “Il bus per Raxaul?“, in risposta l’uomo fa segno 9 con le dita. “900 Rupie?“, un altro 9. “Ci mette 9 ore?“, un altro 9. “Parte alle 9?“, un altro 9. “Alle 9 stasera?“, un altro 9. “Non ce n’è uno prima? Sono le 2“, un altro 9. Mi arrendo. Sette ore di attesa nella cosa più vicina ad un campo profughi in cui mi sia mai trovato. C’è un ristorante, due topi si rincorrono sul tetto. Mi metto comodo.

Dopo un paio di film di Bollywood e altrettante ore di sonno arriviamo a Raxaul. Sono le 5 di mattina. L’ultima fatica è arrivare dalla stazione al confine, ma è completamente buio ed è difficile capire le distanze. Dovrebbe essere vicino, ma quanto vicino? E da quale parte? Ignorato uno sciame di tuk tuk troppo insistente per questo orario disumano, ci mettiamo in cammino verso le luci della città dove sarà più facile chiarirsi le idee. Al suono dei nostri passi, in poco tempo si aggiunge il galoppare di un cavallo che ci sta raggiungendo da dietro. Un uomo anziano, seduto su un carro traballante trascinato dall’animale ci sorride. Due stranieri, a piedi, prima dell’alba, in un città abbandonata a sé stessa. Capisco la comicità della situazione, ricambio il sorriso. In un inglese frantumato, il signore ci guarda e con voce timida chiede “Help?“. “Nepal?” chiedo puntando il dito nella direzione in cui siamo diretti. “Oooh… Si..si..” risponde l’uomo “Ma lontano! Un’ora a piedi!“. Abbattuti dalla notizia ringraziamo e proseguiamo, preparandoci a fermare il primo tuk tuk di passaggio e dare inizio all’ennesima contrattazione, e così fa l’uomo, con il suo carro che riprende a cigolare, probabilmente verso i campi che lo aspettano per un altra giornata di lavoro. Prima di superarci, però, rallenta ancora “È lontano a piedi…” ripete “io vado in quella direzione, se volete…posso darvi un passaggio. Non c’è molto posto, ma ci stringiamo…“. Lo guardo. Forse è Gesù. Forse è Buddha. È qui per salvarci. Condurci alla luce. “Grazie, grazie, grazie mille… sarebbe perfetto, grazie ancora…“, “Non c’è problema…” risponde l’uomo con espressione serena “…sono solo 300 Rupie“.

Ciao India.