Trekking in Kyrgyzstan: da Jeti-Oguz a Karakol

Trovare una mappa che fosse affidabile della regione di Karakol era già una missione non da poco. Riuscire a seguire il percorso che la mappa indicava si è rivelato essere un missione ancora più difficile.

Il Kyrgyzstan è un po’ un parco giochi per chi vuole fare escursionismo, con più montagne che abitanti e meno turisti di San Piero a Ponti (FI). Trekking, campeggio, gite a cavallo, caccia, dormire in una yurta: tutto si può. Basta scegliere. L’area intorno alla piccola città di Karakol in particolare offre tutto quello di cui si può aver bisogno. Situata sotto il il confine con il Kazakhstan è a due passi dal lago Issik Kul, il secondo lago salato del mondo per dimensione, e tutt’intorno è circondata dalla lunga catena del Tien Shan, che fa da sfondo ad ogni fotografia.

Tra i tracciati più conosciuti c’è quello che parte da Jeti Oguz e si conclude tornando a Karakol. Esistono due versioni di questo percorso, o meglio, il lungo tracciato è diviso in due parti che si possono camminare separatamente. La prima, più breve, comincia dalla formazione rocciosa dei Seven Bulls poco più avanti del villaggio di Jeti Oguz, dove si arriva in taxi, e si conclude dopo aver superato un passo di montagna di 3.800 metri rientrando a Karakol, seguendo il fiume da cui la città prende il nome verso nord. La seconda e più battuta tratta, invece di rientrare a Karakol prosegue verso un secondo passo di montagna che supera i 4.000 metri e il lago alpino Alakjol, concludendosi ad Aksu, dalla quale si ritorna alla base. Per completare tutto il tracciato servono circa cinque o sei giorni, ma è comune tra i trekkisti che magari non sono pronti a partire per quasi una settimana fare solo la seconda sezione in meno di tre giorni. Questa infatti può cominciare direttamente da Karakol, è marcata molto meglio della prima parte e si passa dal lago, che è l’attrazione principale. Non che io sapessi niente di tutto ciò quando mi sono messo in marcia con l’intenzione di camminare dall’inizio alla fine, trovandomi poi a completare solo la prima parte, da Jeti-Oguz a Karakol.

Dopo aver preso una tanda a noleggio dal Sun House Hostel un taxi ci porta sotto i Seven Bulls, ossia delle grandi rocce rossastre e rotondeggianti che dovrebbero ricordare il di dietro di sette tori messi in fila (ci vuole un po’ di immaginazione). Da qui una strada sterrata porta in un paio d’ore alla grande vallata di Kok Jaiyk, una grande radura verde che i nomadi dell’area usano come accampamento estivo. Essendo la vallata raggiungibile in auto, qui non si trovano solo decine di yurte a punteggiare i manti erbosi, ma anche molti locali che dalla città arrivano qui per passare qualche ora nella natura, solitamente con un paio di bottiglie di vodka alla mano. Camminando, qui è dove è dove ci si lascia la civiltà alle spalle e inizia il tracciato vero e proprio.

Le formazioni rocciose dei Seven Bulls e il punto di partenza del trekking

Chiamarlo tracciato è un po’ esagerato dato che di tracciato qui non c’è proprio niente. Sulla mappa è stampata di rosso acceso una linea tratteggiata, ma di fronte a me tutto quello che riesco a vedere è una diversa tonalità di verde nell’erba, dove posso solo immaginare che qualcuno sia passato, calpestandola, prima di me. La direzione da prendere è quella che segue il fiume, almeno per il primo giorno, e quindi perdersi è difficile. Per questo, per perdermi la prima volta, ho dovuto aspettare il secondo giorno. E poi il terzo. Essendo partiti tardi il primo giorno è breve, e non volendo salire troppo dove la vegetazione diminuisce e così la temperatura, piazziamo la tenda dopo circa quattro ore, verso le tre del pomeriggio. Il noleggio della tenda è due dollari al giorno, e il suo valore complessivo non supera la stessa cifra. È una vecchia Quechua 2″, di quelle che si aprono da sole e non vanno montante, ma che per essere rischiuse serve una laurea in ingegneria civile. A trasportarla, sembro una tartaruga ninja.

Il Kyrgyzstan è unico. Nonostante questo sia ritenuto un trekking turistico nella zona, solo un paio di persone ci superano ed è alta stagione. Non c’è spazzatura, l’acqua dei fiumi è pulita e potabile, i bambini delle yurte sono ancora sorpresi nel vederci. Campeggiare, qui, non costa niente e si è liberi di piazzare la tenda dove meglio si crede. Certo, non c’è segnaletica o manutenzione, il tracciato non è sempre visibile e in caso di emergenza si è soli, ma questo è il prezzo che si paga per una natura ancora intatta. Se la cosa preoccupa, comunque, in città si può sempre prendere una guida locale e farsi accompagnare.

Il campeggio è libero, ma il tempo reggerà?

La mattina, dopo aver cucinato un tè, siamo persi prima dell’ora di pranzo. Il fiume si dirama in decine di piccoli ruscelli e non è chiaro quando il suo corso va abbandonato per salire verso il passo. Ci vuole un po’ di tempo a decidere quale è la più probabile delle alternative e per fortuna scegliamo quella giusta. Attraversando un piccolo bosco, si sbuca in un’altra valle, e anche qui due yurte hanno fatto campo. I nomadi vivono in queste aree solo nei mesi più caldi, scendendo dove il clima è migliore quando arriva l’inverno. I Jailoo, le basi estive dei kyrgyzi non sono però un luogo di vacanza: qui arrivano per i grandi spazi aperti, ideali per la pastorizia, dove centinaia di cavalli e pecore possono muoversi liberi e il caldo non è soffocante. L’organizzazione è molto semplice: a volte si tratta di una sola yurta utilizzata per tutto, mentre altre c’è una yurta in cui si dorme, e una piccola tenda per cucinare. Chi può permetterselo ha un veicolo parcheggiato accanto alla casa mobile, che una volta finita l’estate sarà smontata, caricata, e portata via. Decine di cavalli stanno tra yurte e fiume.

Vallata dopo vallata raggiungiamo quella che teoricamente dovrebbe essere sotto il passo. Ma il passo qual è? Di fronte a noi una catena di vette innevate ci guarda un po’ incazzata. Può essere così alto? Secondo la mappa superare questo passo significa salire di un migliaio di metri di elevazione, che non sono pochi, ma non appare da nessuna parte che si tratti di una parete possibilmente ghiacciata. Un’altra apertura sale qualche centinaio di metri indietro, dove ci trovavamo mezz’ora prima, ma la bussola non sembra puntare in quella direzione. Inoltre, per non essere un giorno in ritardo e quindi rimanere a corto di provviste, dovremmo superare oggi il passo, ma si sta facendo tardi. Decidiamo di fermarci e capire meglio sotto la luce della mattina quale sia la direzione da prendere.

Mi sveglio tardi, quando la tenda comincia a diventare una sauna ed esco cercando di raddrizzare la schiena ormai imbarcata per la seconda notte senza un materasso. Nell’allontanarmi dal fiume per cercare un bagno idoneo – un albero – noto nella direzione da dove siamo arrivati dei puntini colorati salire sulla facciata di uno dei monti. Cercando di mettere a fuoco, mi rendo conto che si tratta del gruppo di turisti finlandesi che avevamo superato il giorno precedente: è lì il passo. Ringrazio di cuore le marche di vestiti sportivi che producono indumenti fluorescenti, senza le quali adesso probabilmente sarei a rotolare giù dal lato della montagna sbagliata. Cambiamo direzione e torniamo sui nostri passi, avendo perso già diverse ore sulla scaletta.

Il passo è infinito, non nel senso che sale fino a bucare l’atmosfera, ma nel senso che ogni volta che sembra essere concluso, dietro ogni dosso ci sono altre centinaia di metri da percorrere. Il verde qui si dirada, l’erba e le poche piante rimaste a quest’altezza non crescono più. È solo roccia. Nella distanza si vedo i finlandesi, puntini colorati ai quali ci avviciniamo passo dopo passo, e mi chiedo se anche loro bestemmiano quanto me. È a pochi metri dal passo che tocchiamo la neve, ma dopo averlo superato ci ritroviamo davanti ad una discesa che lentamente di ridipinge di verde. Per quanto sia invitante, è difficile aumentare il passo tanto da recuperare tutte le ore che abbiamo perso. Essendo partiti tardi e fermatici presto il primo giorno, essendoci persi due volte il secondo, siamo un giorno intero indietro. Un giorno per cui non abbiamo da mangiare.

Raggiungendo il passo a 3.800 metri d’altezza

In tutto questo dobbiamo perderci un’altra volta prima di convincerci ad abbandonare l’idea di finire al quarto giorno di cammino, tagliando verso Karakol, invece che al sesto raggiungendo e superano il lago Alakjol. Ancora una volta la mappa non è chiara. Il percorso sembrebbe proseguire alla destra del fiume, ma la mappa dice che questo è sulla sinistra. Seguiamo la mappa, per finire in una foresta dalla quale l’uscita è la più ripida delle discese, uno zig-zag che per ore si piega ad un angolazione quasi parallela agli alberi. È chiaro che questa non è la strada giusta, ma le impronte delle scarpe prima di noi dimostrano che qualcuno di qui è passato, e quindi da qualche parte questa strada dovrà portare.

L’arrivo a valle mi permette di capire che esistevano due vie per arrivarci. Le via facile, dalla quale vedo arrivare sorridenti e freschi gli anziani finlandesi fosforescenti con la loro guida in testa al gruppo, e la via difficile, dalla quale sbuco io coperto di polvere ormai mimetizzato con il terreno. Bisogna capire i propri limiti e proseguire sarebbe stupido. Almeno questa è la scusa per mangiare tutte e tre le razioni di pasta di rimaste per cena. Seppure la seconda parte dovrebbe essere meglio segnalata, questa volta abbiamo preso male le misure, sia per quanto riguarda i tempi che le provviste. Decidiamo così di accamparci per la notte e concludere al quarto giorno rientrando a Karakol, tagliando lungo la valle che porta alla città invece che superare il prossimo passo e passare altre due notti almeno fuori.

È in questo momento che bussa alla tenda un uomo – “Halo!“. Tiro fuori la testa, è buio, e ci metto un po’ a capire da dove viene la voce. “La cena è pronta!“, “Eh? Come? Chi? Quando? Dove?“. Poco distante un gruppo di alpinisti russi ha messo su un campo per la spedizione che si apprestano a svolgere nei giorni successivi. Sono una ventina e hanno costruito dal niente una cucina e portato abbastanza cibo da sfamare ogni essere umano nel raggio di duecento chilometri. Hanno cucinato una cena reale da quattro portate e deciso di invitarci. Intorno a un fuoco che non può essere legale per le sue dimensioni mangiamo di gusto, cercando di raccontare le nostre recenti disavventure a gesti. Si ride e si scherza finché una graziosa e minuta ragazza del gruppo, mi guarda negli occhi e chiede “Whisky?“. “Whisky? Ma non bevete vodka voi russi?“, “Sì, noi beviamo vodka a colazione, a pranzo, a cena, tra i pasti, da soli e in compagnia. Ma ora siamo in vacanza, quindi whisky, per cambiare!“. Per cambiare.