Sciismo e Petrolio: Breve Storia del Potere in Iran

L’Islam, rispetto alle altre grandi religioni del nostro tempo, è tra le più giovani. La sua diffusione è cominciata seicento anni dopo il cristianesimo e seppur da subito abbia fatto il suo ingresso in Persia, ha dovuto sovrapporsi a credo ben più radicati. È stato difficile per gli arabi del califfo Umar, uno dei più influenti dopo la morte di Maometto, trasmettere il verbo in Iran, che, nonostante fosse tutt’altro che unito, non sembrava avere alcuna intenzione di sottomettersi agli stranieri. In Persia la situazione a inizio Seicento non era ideale: l’impero dei Sasanidi, degli ariani (da cui deriva la parola stessa “Iran”), era riuscito nei quattro secoli di governo a espandersi e conquistare tutti i territori confinanti. Della “Nuova Persia” facevano parte Afghanistan, Turkmenistan, parti del Pakistan e perfino regioni della Turchia, oltre a Siria, Azerbaigian, Armenia e Georgia, tanto da essere considerato uno degli imperi più influenti del tempo in Asia Centrale, al pari dei Bizantini. Il confronto con i Bizantini era però durato più di un secolo, con i continui attacchi dall’una o dall’altra parte, alternati a promesse di pace che regolarmente venivano infrante, fino a quando, dopo un tentativo fallito dell’imperatore persiano Khosrau di abbattere i confini europei sul Bosforo, il contrattacco bizantino non poté essere più opposto.

Era il 628 quando il nuovo imperatore Sasanide, Kavadh II, figlio e assassino di Khosrau, firmò un armistizio accettando la propria impotenza e abbandonando le regioni occupate dell’ovest. La guerra civile, la perdita di territori, il governo instabile (nei quattro anni successivi salirono al trono cinque diversi re), aggiunti a un pesante sistema tassativo, avevano reso l’Iran un territorio debole, oltre che moralmente stremato. Al momento dell’invasione dei sunniti, lo Zoroastrismo era ancora il culto prevalente, ma buona parte dell’Oriente si era convertito al buddhismo e in altre zone comunità cristiane e ebraiche stavano crescendo. L’ingresso da parte degli arabi fu violento, complicato e sicuramente non ben voluto, ma al contempo non poteva esservi una situazione più favorevole perché questo accadesse, con un paese in cerca di cambiamento, una popolazione dubbiosa sulla propria identità e dagli ideali frammentati.

I primi a convertirsi furono i nobili. L’aristocrazia persiana, a costo di non perdere la propria posizione, accettò la nuova fede come unica e sola, contribuendo così alla diffusione del credo. Le classi più basse della società, però, ebbero bisogno di secoli prima di essere convinte. Perché il Corano fosse tradotto in farsi furono necessari duecento anni, ma anche dopo questa operazione, volta a invitare tutti i cittadini in moschea, i musulmani non raggiungevano ancora la metà della popolazione. Il motivo era semplice: il carattere dei persiani, devoto alla resistenza, orgoglioso delle proprie origini, fiero della propria terra, non riusciva ad accettare di essere invaso, e quindi governato, da un gruppo di stranieri. L’Islam stava crescendo e i suoi concetti, vicini in molti aspetti a quelli di Zoroastro, stavano cominciando a essere capiti, ma questo non bastava a piegare i persiani, che in un governante cercavano un’identità. La prima grande conversione avvenne nei due secoli successivi, quando la prima dinastia sia indigena che musulmana prese il potere, da metà Ottocento in poi. Bernard Lewis, storico americano, ha detto al riguardo che «L’Iran è stato islamizzato, ma mai arabizzato».

In Iran il movimento sciita non era mai riuscito a farsi valere fino al Sedicesimo secolo. Pur rappresentando una grande fetta della società fin dal primo periodo islamico, non era mai stato in grado di scavalcare l’influenza sunnita degli arabi, rimanendo un credo popolare, una religione per gli oppressi. Non è stato però nessun episodio romantico, nessuna presa di posizione dal basso, a trasformare l’Iran nello stato sciita che è ancora oggi. Anche in questo caso, in questa seconda conversione, è stata necessaria la forza e la violenza per ottenere un cambiamento. Nel 1500 salì al trono lo Shah Ismail I, che dopo varie lotte interne aveva conquistato il potere, consegnando il trono alla dinastia dei Safavidi. Ismail era partito dall’odierno Azerbaigian, con la missione di conquistare l’intero territorio e sconfiggere le altre dinastie che cercavano di allargare la loro influenza. Partendo da una vittoria a Tabriz, continuò a spostarsi e battere i nuovi avversari, al punto di dichiarare sua la Persia e spaventare perfino l’impero Ottomano costretto a rivalutare l’entità della forza dei persiani. Ismail era un idealista, fedele al credo sciita e convinto di essere un discendente diretto di Maometto. Mentre parte della popolazione, in particolare i militanti sciiti Qizilbash delle regioni curde, vedeva in Ismail e nel suo impero la possibilità di affermare finalmente un’ideologia nativa, o quasi, del proprio paese e quindi recuperare l’orgoglio, la realtà è che per diffondere la nuova versione della religione lo Shah fu spietato, sopprimendo nel sangue ogni opposizione sunnita e obbligando l’intera nazione alla conversione. Ismail era arrivato lontano e si sentiva invincibile, al punto da convincere i suoi seguaci di possedere un grado di divinità e riuscire a unificare l’intera Persia placando le iniziative di riscatto delle aree tribali. I Safavidi restarono al potere per oltre due secoli, durante i quali l’esercito mantenne sempre un ruolo fondamentale, ma il motivo della loro importanza non è il loro sistema di governo, piuttosto l’introduzione, per la prima volta, della religione sciita come credo di stato. Seppur altre figure sciite si erano trovate al comando in passato, i Safavidi sono stati gli unici a imporre la religione e confondere la linea che separa stato e moschea. Nessuna delle dinastie successive è durata tanto a lungo quanto quella dei Safavidi, ma la moschea ha comunque sempre mantenuto il suo posto in alto, lasciando negli iraniani un’impronta che ne ha modellato la cultura. Fino all’arrivo dei Pahlavi.

Con l’arrivo del Novecento e l’avanzo della tecnologia, i nemici, gli invasori e i rivali da cui proteggersi non erano più soltanto quelli che si trovavano al di fuori dei confini terrestri o nelle milizie dei gruppi tribali, ma potenze che da molto, molto lontano potevano arrivare veloci e da un momento all’altro. Il mondo aveva cambiato dimensione, era diventato molto più piccolo di quanto lo fosse mai stato e quello stesso mondo sembrava aver improvvisamente cominciato a trovare l’Iran troppo attraente per essere ignorato. La sua posizione era strategica, tra Europa e Unione Sovietica sulla via terrestre, tra India ed Africa sulla via marittima. E poi, c’era il petrolio. Il petrolio che era l’oggetto di un’industria in espansione e aveva acquisito importanza cardinale per tutti i governi che avevano intuito il valore di un accesso prioritario alla materia prima.

Un colpo di stato sembrava vicino, anche se non era chiaro chi lo avrebbe portato avanti per primo. Alla fine del 1920 un gruppo armato supportato dall’Armata Rossa aveva annunciato una marcia su Tehran. L’unico corpo militare ancora attivo e unito era la Brigata Cosacca, capitanata dall’ufficiale Reza Khan, che per anticipare una probabile guerra civile aveva deciso di sfondare le porte degli uffici governativi prendendo nelle proprie mani il controllo. Khan si assicurò immediatamente Tehran e con una spinta non dichiarata ufficialmente da parte degli inglesi riuscì a confermarsi nuovo capo di governo. Reza Khan, che dopo la sua presa di potere cambiò il proprio nome in Reza Pahlavi, non era l’uomo scelto dei britannici, ma semplicemente il minore dei mali in un momento di crisi, un personaggio che valeva la pena aiutare con soldi e munizioni per evitare che un nemico peggiore si avvicinasse un passo in più. Dopo la messa in sicurezza della capitale, Pahlavi spedì un convoglio persiano in Russia per firmare un trattato di pace e visto il successo delle sue azioni e la capacità di recuperare un minimo d’ordine nel caos imminente venne presto nominato primo ministro. La carica di Shah arrivò qualche anno dopo. La speranza degli inglesi di conquistare la simpatia del nuovo leader iraniano svanì non appena fu chiaro che il nuovo Shah aveva idee ben diverse per il proprio paese. Dopo decenni di declino costante sul piano internazionale durante il periodo della dinastia Qajar, la cosa più importante per Reza Khan Pahlavi era rimettere l’Iran in sesto modernizzandolo per tornare a essere competitivo. Le riforme che presero atto dagli anni venti in poi andarono a toccare gli usi e i costumi di tutta la società, nel tentativo di eliminare tutti quei comportamenti che potevano essere considerati arretrati. Lo Shah era un capo autoritario, influenzato dall’Occidente, ma con forti sentimenti nazionalisti. Fu Reza Khan Pahlavi a cambiare ufficialmente il nome di Persia in Iran, per celebrare il sangue ariano della sua popolazione. Fu Reza Khan Pahlavi a proibire per la prima volta il chador e gli abiti clericali, a favore di vestiti europei. Fu Reza Khan Pahlavi a prendere Adolf Hitler come principale punto di riferimento politico all’estero e seguire il suo esempio nazionalizzando banche e risorse naturali. Fu Reza Khan Pahlavi a promuovere un nuovo tipo di educazione, fondando l’Università di Tehran, e permettere l’industrializzazione del paese, cominciando dalla costruzione di infrastrutture. Il re iraniano rimase al suo posto per sedici anni, in buona parte grazie al suo corpo militare che, con la forza, mantenne saldo il controllo sul popolo.

Nel 1931 venne vietato all’aviazione imperiale britannica di entrare nello spazio aereo iraniano, concedendo invece il permesso alla Lufthansa tedesca. L’anno successivo fu deciso di interrompere il patto anglo-persiano riguardante le concessioni di petrolio. La pressione era talmente alta che il patto venne firmato nuovamente pochi anni dopo, ma queste mosse insieme alla nazionalizzazione di molte altre attività in cui l’impero britannico aveva interesse non potevano essere sopportate. La Seconda Guerra Mondiale fu la scusa per una nuova invasione e nel 1941 le truppe britanniche raggiunsero Tehran chiedendo allo Shah di abdicare in favore di suo figlio, uomo molto più propenso a giocare secondo le regole degli inglesi. Dal 16 settembre 1941, quindi, l’impero britannico aveva finalmente un uomo di fiducia al suo fianco in Iran: lo Shah Mohammed Reza Pahlavi.

Godendo di supporto esterno e potere illimitato, preferì inizialmente di concentrarsi sulle relazioni internazionali, facendo lunghi e numerosi viaggi in Europa, trascorrendo estati sulle Alpi francesi in ville lussuose, mentre i suoi ministri si occupavano della gestione e del controllo del paese. Un primo ministro in particolare, Mohammad Mossadeq, era riuscito a guadagnarsi il supporto del popolo. Mentre lo Shah era impegnato a godersi la vita da re, Mossadeq aveva cominciato il suo percorso per far diventare l’Iran uno stato più vivibile. Il sogno della democrazia era ancora lontano, ma la sua aperta opposizione al controllo straniero gli permise di acquistare le simpatie di tutte le fasce più basse della società. Mossadeq si attivò fin da subito nel sociale, introducendo novità importanti come uno stipendio di disoccupazione, il controllo del prezzo degli affitti, oltre ad abolire le forme di schiavitù che ancora esistevano tra i proprietari terrieri nelle aree rurali. Era diventato una luce di speranza per il popolo, che solo grazie a lui aveva cominciato a riacquistare fiducia nella politica. La sua immagine crebbe rapidamente e nell’arco di pochissimo tempo decise di affrontare quella che era la più importante delle questioni: il recupero della proprietà del petrolio iraniano. Tutti, seppur non sapendone calcolare l’entità, capivano quale fosse la dimensione del giro d’affari per inglesi ed americani in Iran. L’economia dei paesi occidentali stava crescendo esponenzialmente e questo era solo grazie al petrolio. L’Iran stava regalando la sua più grande ricchezza all’Ovest, una ricchezza con cui sarebbe potuto crescere e modernizzarsi rapidamente, ma alla quale non aveva accesso a causa di accordi forzati che erano stati firmati in circostanze sospette. Mossadeq credeva fermamente che il primo passo per la modernità fosse riappropriarsi delle materie prime e nello stesso anno della sua elezione a primo ministro promosse una legge che nazionalizzava l’AIOC (Anglo-Iranian Oil Company) e annullava le concessioni che secondo contratto sarebbero dovute scadere nel 1993. Questa mossa non ebbe vita lunga e fece perdere la pazienza agli americani nell’arco di pochi mesi. La CIA intervenne imponendo allo Shah di sostituire Mossadeq con un primo ministro dalle idee più pacate, Fazlollah Zahedi. Mossadeq, però, aveva dalla sua parte il supporto dell’intero popolo e rimuoverlo non fu semplice, tanto da far fallire il primo tentativo di colpo di stato e costringere lo Shah a scappare a Roma. Il secondo tentativo, poco più tardi, ebbe successo. Il capo della CIA incontrò Mohammed Reza Pahlavi, fece intendere che il cambio di governo era una necessità, che da monarca assoluto lo Shah avrebbe avuto tutto il supporto degli americani. A ciò aggiunse un milione di dollari in contanti. Mossadeq venne rimosso ed il sogno di una democrazia schiacciato da interessi economici troppo grandi. Nella seconda e più lunga fase del suo governo Mohammed Reza Pahlavi, avendo perso supporto ed essendo identificato come l’uomo degli americani, fu costretto a fare leva sulla forza militare per mantenere il suo posto sul trono. Con l’aiuto della CIA, lo Shah fondò la SAVAK, il primo corpo di polizia segreta iraniana, che negli anni a seguire, fino alla rivoluzione del 1979, fece tremare la popolazione. La SAVAK era composta da migliaia di uomini, soldati, assunti per fermare con la violenza ogni forma di protesta o dissidenza. Un gruppo che operava all’ombra, senza seguire alcun regolamento stampato. Ciò che faceva più paura però non erano i militari, ma le migliaia di persone normali, gente comune, pagate per essere informatori. Chiunque poteva essere una spia della SAVAK, da un componente della propria famiglia, ad un’anziana signora alla fermata dell’autobus, al fruttivendolo del mercato. Chiunque poteva passare informazioni alla polizia, puntare il dito su un sospetto ribelle, comunicare cosa veniva detto all’interno delle case da tè, nei mercati, per le strade. Da informatori, queste persone vivevano con le orecchie aperte, cercando di captare malumori, critiche e idee contrarie alla linea del regime, in cambio di protezione e privilegi. Poteva bastare una battuta detta nel luogo sbagliato perché in pochi minuti arrivasse un gruppo armato della SAVAK e si finisse in prigione o sotto tortura perché sospettati di essere parte dell’opposizione. Dagli anni Sessanta in poi, il clima in Iran era diventato difficilmente vivibile. Una forma di ansia era presente in ogni luogo pubblico e all’interno di molte case. Nessuno poteva fidarsi di nessuno e qualsiasi confidenza, anche detta a voce bassa, poteva causare guai. La SAVAK aveva provocato una rabbia e una paura che non trovando alcun modo per esprimersi stava crescendo a dismisura. L’impotenza dei gruppi politici contrari al regime era frustrante, ma al contempo proprio la frustrazione aveva unito chi non ce la faceva più. Lo Shah però guardava al futuro, guardava all’esterno. Mohammed Reza Pahlavi aveva messo in atto le sue più grandi ambizioni con il piano per la grande civilizzazione attraverso quella che venne chiamata la Rivoluzione Bianca, una rivoluzione che sarebbe avvenuta senza spargimento di sangue. Si era attivato per far crescere l’Iran e mirava a far diventare la sua terra un competitore degli stati europei. Secondo lo Shah, non c’era onore nell’essere imperatore di un paese povero.

Lo Shah faceva il possibile, per essere considerato il simbolo del progresso. La sua immagine in vesti regali era stampata ovunque, si trovavano statue dei Pahlavi in ogni città e la sua faccia era su ogni banconota. Distanziandosi dalla moschea, cercava di emulare l’Occidente in un luogo troppo legato alle proprie origini per potersi separare dalla propria identità e così più la religione veniva allontanata e più questa diveniva importante per i credenti, più i rapporti diplomatici con gli altri paesi divenivano stretti e più questi paesi venivano odiati, più la propaganda si faceva insistente e più cessava di funzionare. Anche l’uso della forza stava perdendo efficacia, per questo nel 1975 Mohammed Reza Pahlavi introdusse il partito unico, il Rastakhiz, rendendo illegale ogni altro partito politico. Da quell’anno diventava obbligatorio per tutti i cittadini esservi iscritti. Rifiutarsi significava essere contrari al suo regno e di conseguenza parte dell’opposizione. Le opzioni si riducevano a due: essere a favore della monarchia Pahlavi, oppure essere traditori, criminali. Dalla fondazione del Rastakhiz la censura si fece ancora più crudele, la violenza sul popolo ancora più pesante. E la necessità di una rivoluzione sempre più forte.

Ruhollah Khomeini aveva vissuto a Qom fin da giovane, da quando il suo maestro al seminario islamico lo aveva invitato a studiare nella città sacra. Khomeini aveva passato tutta la vita sui libri, studiando religione, giurisprudenza, filosofia e poesia, passando poi a insegnare, ma senza mai concedere le sue idee all’attività politica. La sua carriera nei più importanti seminari islamici, però, lo aveva portato in età adulta ad una certa fama e le sue posizioni sui legami tra moschea e governo venivano rispettate da un gruppo sempre più numeroso di persone. Dopo decenni di viaggi a insegnare la filosofia dell’Islam in Iran ed all’estero, Khomeini era diventato una delle personalità più importanti del mondo sciita. Le sue parole avevano un peso imponente sulla censurata opinione pubblica e ciò che veniva discusso al chiuso delle moschee partiva spesso proprio dalla sua bocca. Il suo nome circolava da est a ovest e alla morte della più alta carica clericale, l’Ayatollah Borujerdi, toccò a Khomeini diventare il capo spirituale dell’Iran. Questo, però, accadde in un momento delicato. La Rivoluzione Bianca prometteva di migliorare molto la vita della classe sociale più bassa, ma rimanevano tre categorie di persone che non potevano accettarne in alcun modo le implicazioni: i proprietari terrieri, gli imprenditori e il clero. Per i primi la nazionalizzazione dei terreni poteva significare la rovina, per i secondi la spartizione dei profitti con gli operai era impensabile e per i terzi l’introduzione del diritto di voto per le donne, la promozione di un’educazione laica e la possibilità concessa ai non musulmani di accedere a posizioni di governo erano cose che si scontravano violentemente con quella che era la direzione del pensiero islamico. Per il popolo molte delle riforme proposte da Pahlavi si sarebbero probabilmente rivelate positive, ma questo non sembrava abbastanza per garantire il consenso. Perché? Mancava la scelta, per prima cosa, mancava la democrazia, o la sola idea di democrazia, per rendere l’Iran veramente uno stato moderno. E poi mancava la genuinità, essendo chiaro a tutti che l’unico scopo di queste riforme era il tentativo da parte dello Shah di essere accettato dalla gente. E infine c’era la presenza, costante e immobile, degli americani, degli stranieri che dall’Occidente volevano trasformare l’Iran in un paese da sfruttare a proprio vantaggio, sradicandolo dalle proprie origini.

Se la rivoluzione dello Shah fosse stata messa in atto solo qualche anno prima l’Iran oggi sarebbe un luogo diverso. Prima di Khomeini i leader religiosi avevano avuto un atteggiamento più moderato nei confronti del governo, ma con il nuovo ayatollah al comando era partito il contrattacco. Khomeini aveva idee radicali e fu tra i primi a opporsi ai cambiamenti che l’Iran stava subendo, denunciando lo Shah e gli Stati Uniti, lasciando discorsi nelle madrasse e boicottando le decisioni del governo. Dal 1963, per i due anni successivi, Khomeini venne arrestato più volte, detenuto a Tehran causando proteste di massa da parte dei suoi seguaci. Le sue parole facevano paura allo Shah, che cominciava a trovarsi in difficoltà a gestire questo primo vero schieramento di opposizione, questa folla stanca che nelle parole del suo maestro aveva trovato il coraggio di ribellarsi. Uccidere Khomeini sarebbe stato un disastro politico, ma in qualche modo doveva comunque essere eliminato dalla scena. Fu costretto all’esilio.

Khomeini lasciò l’Iran e trascorse i seguenti quattordici anni tra Turchia, Iraq e Francia, continuando il suo percorso da leader sciita e promuovendo la Sharia come unica forma di legge valida. Con la sua fama continuarono a crescere anche le proteste fino a quando lo Shah, nel 1979, non fu costretto a fuggire dall’Iran e abbandonare il trono. Khomeini rientrò immediatamente in patria, accolto a braccia aperte da oltre cinque milioni di persone che lo aspettavano a Tehran, cinque milioni di persone che trovavano in lui ispirazione, cambiamento, pace. Bastarono due settimane perché il primo ministro del governo Pahlavi si trovò costretto a lasciare il suo ufficio agli uomini di Khomeini e fu questione di un paio di mesi perché l’Iran venisse dichiarato ufficialmente Repubblica Islamica. Khomeini era un radicale, era l’uomo di cui l’Iran aveva bisogno per abbattere la monarchia che nei secoli passati non era mai riuscita a migliorare la vita del popolo. Le sue idee forse non si avvicinavano a quello che nel mondo era il concetto di modernità, ma contemporaneamente al progresso che era stato promesso non ci si poteva più affidare. Il piano per il futuro visto dallo Shah non dava alcuna conferma o sicurezza, non era chiaro negli intenti e non seguiva ciò che erano i bisogni dei cittadini. Molti dei punti chiave della Rivoluzione Bianca potevano essere condivisi nella teoria, ma la realtà dei fatti, che includeva un dittatore controllato da forze straniere, un violento corpo di polizia e la più pesante delle censure, non era un compromesso accettabile. L’Islam, in compenso, era una certezza, l’unica certezza a cui gli iraniani potevano abbandonarsi, l’unica forma di giustizia che, venendo dall’alto, non guardava alle classi sociali o ai confini nazionali. L’Islam non sarà stato la modernità, ma rappresentava il nuovo, e finalmente permetteva di esprimere a voce alta ciò che fino ad allora doveva essere detto sottovoce in moschea. Dalle estreme ingiustizie dello Shah il popolo sperava di uscire attraverso la rigida legge del dogma sciita e Khomeini era il portavoce del fondamentalismo che avrebbe guidato tutti verso il benessere.

Associare a Khomeini l’immagine che ci siamo fatti oggi del fondamentalista islamico però è un errore. L’Ayatollah aveva raggiunto il potere a quasi ottant’anni e pur imponendo i suoi ideali in modo assoluto, conduceva una vita ascetica. Khomeini si cibava quasi esclusivamente di yogurt, riso e frutta e aveva mantenuto la residenza nella Qom a cui era tanto legato. La sua casa era piccola, con una sola camera in cui erano presenti nient’altro che un materasso e una pila di libri al suo fianco. Molto del suo tempo era trascorso su questi testi, ma la sua semplice dimora era anche il luogo in cui venivano accolti ospiti e delegati internazionali. Con la sua lunga barba bianca, le scure sopracciglia folte e il suo turbante nero a coprirne la testa, quell’uomo che ancora oggi si trova in così tante fotografie e opere d’arte sparse per l’Iran rimane difficile da interpretare. La sua salita al potere è ben giustificata: la gente odiava lo Shah e a causa sua aveva cominciato a odiare il capitalismo occidentale che sembrava essere l’unico motore delle sue decisioni; aveva perso fiducia in ogni tipo di politica e trovava conforto solamente nella spiritualità e nei luoghi in cui questa poteva essere espressa; aveva bisogno di un cambiamento radicale, di prendere una strada che allontanasse il più possibile dalla SAVAK e da tutto ciò che rendeva spaventosa la vita di tutti i giorni. Khomeini, in più, prometteva ciò che era sempre mancato, la democrazia. Aveva annunciato che la rivoluzione avrebbe portato all’elezione di un governo indipendente, un governo rappresentativo del popolo e che non subisse l’influenza del clero. Nei suoi discorsi il sociale era l’argomento predominante e la garanzia di un tetto, energia elettrica, riscaldamento, comunicazioni libere per tutti i cittadini era allettante. Ciò che è stato dopo ha però avuto implicazioni differenti. I primi mesi di Khomeini portarono moltissimi cambiamenti per gli iraniani, ma poche sono state le promesse rispettate. Le donne furono costrette a coprirsi, le minoranze religiose messe sotto controllo, venne vietato ai non musulmani di operare al governo e, soprattutto, l’imposizione della Sharia come unica legge da seguire. Le leggi di Dio, sostituirono la SAVAK con le Guardie Rivoluzionarie Islamiche, mandate per le strade ad assicurarsi che il codice morale fosse mantenuto da uomini e donne, a silenziare proteste e bloccare ogni comportamento anti-islamico. I rapporti con la maggior parte dei territori non musulmani vennero tagliati, i bar e le discoteche delle città chiusi, vietata la vendita di alcol e buona parte delle opere cinematografiche, straniere e locali, vennero censurate. Khomeini si era attivato per fare pulizia. Sentiva il bisogno di eliminare dal paese ogni comportamento negativo e ogni influenza occidentale per poi poter cominciare a costruire ciò che vedeva come una nazione forte e sana.