Linee di Confine

Quando avevo raggiunto la stazione di Xi’An per prendere quel treno per Zhangye, i biglietti ferroviari in mandarino avevano ormai smesso di essere quella criptica collezione di istruzioni che continuava a farmi perdere ogni qualvolta tentassi di spostarmi da una città all’altra. Dopo quaranta giorni in Cina la comunicazione era ancora un ostacolo, ma mi sentivo finalmente a mio agio nella sala d’attesa, circondato da schiere di locali intente a masticare zampe di gallina come fossero patatine.  Sapevo, in qualche modo, di essere nel posto giusto. Ciò a cui non ero preparato invece, era un viaggio notturno lungo quindici ore in una carrozza di terza classe di un treno pieno fino all’ultimo posto. In Cina, non la chiamano neanche terza classe; si chiama hard seat, sedile duro. Un promemoria per ricordare che se non fai parte del gruppo di persone che può permettersi un posto migliore, un minimo di sofferenza è da tenere in conto.

Delle tante cose nella vita di cui non sono sicuro, una era in cosa esattamente mi stessi cacciando. Mi trovavo a Xi’An, nella provincia dello Shaanxi, in procinto di entrare il Corridoio del Gansu con una sola missione: rientrare a casa, in Europa, senza prendere mai un aereo o un elicottero o una mongolfiera o uno zeppelin o qualsiasi altro mezzo volante. Beh, per uno zeppelin forse avrei fatto un’eccezione, ma l’opportunità non si è mai presentata. Stavo viaggiando con l’intenzione romantica di seguire le orme di mercanti ed esploratori del passato, lungo l’antica Via della Seta attraverso Asia centrale e Medio Oriente, utilizzando i mezzi pubblici e l’occasionale passaggio in autostop. A 25 anni l’avventura sembrava una scorciatoia efficace per la soddisfazione personale. O forse, era solo il fatto che sacrificare la comodità appariva come l’unico modo per giustificare un egoista cammino alla ricerca della felicità. Ma questa è un’altra storia. I miei dubbi non risiedevano solo nei perché, ma anche negli aspetti più pratici del percorso, nei cosa e nei come.

Il mondo come lo conosciamo esiste perché lo abbiamo costruito esattamente così. Secondo il geografo Franco Farinelli, all’epoca della scoperta dell’America chiunque fosse in grado di leggere Seneca o Tommaso d’Aquino sapeva già che la Terra è rotonda. Ciò per cui dobbiamo ringraziare Colombo, quindi, non è aver comprovato questa sfericità, ma piuttosto l’opposto: l’aver ridotto il globo ad una mappa, all'”all’intervallo tra un nodo e l’altro nel reticolo dei meridiani e dei paralleli”. La Terra prende forma a seconda di come noi la interpretiamo. Viaggiando, esplorando e cercando ciò che si trova oltre il conosciuto l’uomo ha reso la terra piatta, vi ha disegnato sopra delle linee e la ha, in qualche modo, inventata. Le mappe, al contrario di quanto spesso tendiamo a credere, non sono semplicemente la proiezione scientifica di una serie di misurazioni, ma prodotti di culture e ideologie. Un riflesso della nostra dimensione e dei nostri bisogni sulla superficie del pianeta che abitiamo.

Le mappe sono storie da leggere. Ci dicono chi siamo, sia come individui che come comunità. Basta guardare un planisfero qualsiasi nelle vicinanze: l’Europa sarà al centro. Prova a fare la stessa cosa in Nuova Zelanda e nel mezzo troverai una distesa di acqua da cui fa capolino una minuscola coppia di isole. L’eurocentrismo, spostandosi, scompare. Per un esempio ancora più concreto, apri Mapping Manhattan di Becky Cooper e osserva come la geografia possa istantaneamente perdere tutta l’oggettività con cui tendiamo a caratterizzare la scienza. Cooper ha fatto una cosa semplice: ha distribuito mappe bianche di Manhattan a centinaia di abitanti dell’isola, chiedendo loro di spedirle indietro una volta compilate a loro piacimento. Nel suo libro ha raccolto una serie di disegni, note, direzioni e collage, alcuni semplici e altri intricati, schematici e creativi, provenienti da persone senzatetto e da famose celebrità. Su una delle mappe trovi solo spazi verdi, i luoghi preferiti per andare a correre dell’autore, su un’altra sono disegnati tutti i guanti persi in città e ancora, nella successiva, si vede solo una piccola croce ed le parole “Conosciuto mia moglie”. Queste mappe possono apparire diverse da quelle che si trovano in un atlante, ma hanno la stessa funzione, ossia riprodurre quegli indicatori che non solo permettono al lettore di muoversi senza perdersi, ma anche di stabilire il suo posto in relazione al mondo.

Il modo in cui guardiamo le mappe è il modo in cui guardiamo il mondo. Che siano idee del singolo o di un’intera comunità ad essere rappresentate su carta, è necessario ricordare che proprio come razza, genere e classe, anche i nostri confini, le nostre città ed i nostri simboli sono costrutti sociali. E proprio come per razza, genere e classe, è raro che l’individuo abbia l’opportunità di scegliere a che gruppo appartenere. Le mappe non sempre possono essere disegnate come nel libro di Becky Cooper. Più spesso, invece, è la cultura dominante a decidere dove porre i confini.

Ero arrivato a Kashgar dopo quasi una settimana di viaggio. L’itinerario che avevo appena completato era, un tempo, parte di quella sottile striscia di terra che collegava Oriente ed Occidente, conosciuta come la Via della Seta. Alessandro il Magnifico aveva raggiunto l’odierno Uzbekistan nel periodo di massima espansione del suo impero, ma la Cina era ancora lontana, rilegata all’angolo nord-occidentale di quel che è oggi. L’apertura del Corridoio del Gansu avvenne attorno al 130 D.C., avviando gli scambi commerciali tra due continenti non più divisi. Il percorso che permise alla seta tanto desiderata di raggiungere l’Europa non era semplice da percorrere. Il Corridoio si stringe tra l’altopiano tibetano ed il deserto del Gobi e i mercanti dovevano percorrere almeno quattromila chilometri solo per raggiungere l’Asia centrale. Il mio viaggio era stato un po’ meno impegnativo: dopo una breve sosta nella capitale dello Xinjiang, Urumqi, un’altra nottata di treno mi aveva portato all’ultima delle città cinesi, Kashgar. Ciò che avevo trovato, però, non era cinese per niente. Una moschea stabiliva il centro città, mentre una lunga serie di bassi edifici color sabbia circondavano il mercato dove i ravioli al vapore erano stati sostituiti da stufati di montone. Gli abitanti di sesso maschile della città avevano la pelle più scura, portavano buffi cappelli squadrati e lunghe barbe. Anche per le donne, la situazione era un po’ diversa. Le minigonne del Bund di Shanghai erano scomparse, rimpiazzate da pesanti veli scuri, sotto ai quali solo l’immaginazione aveva accesso. Né gli uomini, né le donne, inoltre, parlavano mandarino. Sulla carta, Kashgar è cinese tanto quando Pechino, ma nella realtà appariva come un luogo completamente differente.

Questa regione è quella che gli Uiguri vorrebbero fosse il Turkestan orientale. La presenza di petrolio sotto la sua superficie e la posizione strategica (in poche ore si possono raggiungere Pakistan, Afganistan, Kirghizistan, Kazakistan e, poco più in là, l’India) sono le ragioni per cui la Cina non rinuncerà mai a questa fetta di territorio. Non conoscevo molto la situazione nella regione prima di arrivare, ma alcune notizie di attacchi terroristici in diverse parti dello Xinjiang avevano funzionato efficacemente come campanello d’allarme. Solo un paio di settimane prima una bomba era esplosa nel mercato centrale di Urumqi, uccidendo più di trenta persone, e il giorno precedente al mio arrivo a Kashgar tredici persone erano state colpite a morte mentre tentavano di attaccare la centrale di polizia locale.

Ero appena entrato in una zona di guerra senza rendermene conto? Com’era successo? No, non sembrava così pericoloso. Alcuni carri armati pattugliavano le strade di Urumqi, ma nonostante tutto mi sentivo al sicuro camminando in città. Ma se questa non era una guerra, cos’era? Quand’è che comincia una guerra? Quando è presente un conflitto ideologico? Quando viene sparata la prima pallottola? Quando i media decidono di parlarne? A casa, in Occidente, la guerra esiste solo quando ci viene raccontata, ma non tutte le guerre fanno lo stesso rumore. Il governo cinese sa bene come prendere il potere silenziosamente e la loro formula si è dimostrata vincente più e più volte. In Xinjiang, così come nel più famoso Tibet, vengono istituiti incentivi per far sì che la popolazione dominante degli Han si trasferisca in queste aree remote, diluendo di conseguenza le comunità locali al punto da far perdere loro sia il potere che le tradizioni. A Kashgar un anello di edifici imbiancati a nuovo, strade ampie, palazzi moderni ed una grande statua di Mao Zedong intento a salutare il traffico si stringono sul compatto centro islamico. Gli Uiguri hanno provato negli anni a lottare per la propria indipendenza e, probabilmente, continueranno a farlo senza successo.

Gli Uiguri sono prigionieri del loro territorio. Ma chi, in fondo, non lo è? Secondo Tim Marshall, autore di Le 10 Mappe che Spiegano il Mondo, lo siamo tutti in qualche modo. Sfogliando le pagine del libro di Marshall, scopriamo quanti dei conflitti politici siano causati dalla forma del nostro pianeta. Perché la Russia vuole in ogni modo la Crimea? Perché Sebastopoli è l’unico porto d’acqua calda nelle vicinanze. Perché la Cina tiene così tanto al Tibet? Perché la catena dell’Himalaya e l’unica forma di protezione da una sempre crescente India (e anche il motivo per cui queste due potenze non si sono mai combattute). E perché il Medio Oriente e l’Africa sembrano sempre così distanti dalla pace? Perché i confini creati in conseguenza alle colonizzazioni non rispettano la geografia.

Certo, non è tutto così semplice. Come dice Marshall, il nome stesso del Medio Oriente (a oriente di cosa?) proviene da una visione eurocentrica del mondo. Gli europei hanno utilizzato l’inchiostro per tracciare i confini sulle mappe. Queste linee, però, non sono altro che divisioni artificiali e adesso qualcuno vuole modificarle con il sangue. Marshall si riferisce in particolare al tentativo dell’ISIS di formare un califfato e annullare ciò che, secondo il gruppo terroristico, è alla radice di tutti i problemi nell’Asia sud-occidentale: l’accordo Sykes-Picot.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando lo scioglimento dell’Impero ottomano era ormai alle porte, l’Inghilterra e la Francia firmarono un contratto segreto in cui veniva stabilito come i territori mediorientali sarebbero stati divisi quando i turchi se ne fossero andati. Con la complicità della Russia, i due autori dell’accordo Mark Sykes e Francois Georges Picot, tirarono una linea retta dalla città di Haifa (oggi parte di Israele) fino a Kirkuk (oggi parte dell’Iraq). Tutto quello che si trovava a nord di questa riga immaginaria sarebbe stato sotto influenza francese, mentre ciò che si trovava sotto avrebbe subito il controllo britannico. La violenza esisteva prima dell’arrivo degli europei, ma, come abbiamo potuto vedere anche in Africa, creare stati-nazione in modo così arbitrario,  raggruppando comunità di persone non abituate a convivere, difficilmente può contribuire alla diffusione di giustizia, eguaglianza e stabilità. Prima di Sykes e Picot non esisteva una Siria, un Libano, una Giordania e neppure un Iraq, un’Arabia Saudita, un Kuwait o un’Israele. Le mappe moderne mostrano confini e nomi di stati-nazione, ma questi sono ancora giovani e molto fragili.

In antichità, in questa regione si trovavano assiri, babilonesi e sumeri. Con il passare dei secoli, la montuosa regione settentrionale venne occupata dai curdi, quella a ovest del fiume Tigri dai sunniti, mentre nella parte orientale fecero base gli sciiti. I conflitti non erano certo assenti, ma l’Impero ottomano, così come quello greco ed in precedenza quello persiano, conquistarono questi territori tenendo in considerazione la conformazione storica del territorio, evitando di scuotere troppo le popolazioni qui radicate. L’Europa, invece, riuscì ad ignorare completamente le differenti tradizioni presenti nella regione, tagliando i territori per dimensione e provocando la crescita di leader dispotici, che proiettarono i loro valori religiosi su intere popolazioni,  costrette all’interno di confini freschi di stampa. Culture contrapposte si trovarono a convivere e i risultati sono stati disastrosi.

L’Iraq era ufficialmente off-limits. Poche settimane prima del mio ingresso in Iran, la parte curda dell’Iraq era considerata sicura per viaggiare e concedeva un visto di dieci giorni all’arrivo ai turisti che desiderassero entrare. Con l’espansione dell’ISIS questo non era più possibile. Dovevo trovare una via alternativa. Mi ero lasciato Kashgar alle spalle entrando in Kirghizistan, dove la burocrazia mi aveva bloccato per un mese in un paese dove montagne popolate da nomadi a cavallo circondano città sovietiche in cui l’Islam è la religione nazionale e la vodka è venduta a un euro a bottiglia (tanto per parlare di conflitti ideologici).  Un altro paese dai confini geometrici, questa volta per colpa dell’URSS. Successivamente, ero entrato in Uzbekistan, con due settimane di visto a disposizione per riuscire ad ottenere il permesso successivo, quello per oltrepassare nelle soleggiate lande turkmene. Purtroppo, quel visto non arrivò mai e piuttosto che farmi arrestare al confine dalle autorità dello stato conosciuto come la Corea del Nord dell’Asia centrale, decisi che forse era una buona idea correre al più vicino aeroporto e sparire da questo posto. L’aeroporto era a Tashkent, a 700 chilometri di distanza. Nella direzione opposta, ovviamente.

Quando osserviamo una mappa, osserviamo le persone. Vediamo unioni democratiche con libertà di movimento e recinzioni invisibili in cui la gente è intrappolata. Ci sentiamo orgogliosi si essere nati da una parte o dall’altra di queste linee immaginarie come se fosse stata una scelta e proviamo pietà per quelli che nella loro prigionia non trovano pace. Gli stati non possono esistere senza persone, ma le persone, sembra, non possono esistere senza stato. Nascere senza confini significa non avere un’identità. Non avere un passaporto, non avere un nome, non avere assistenza sanitaria o diritto alla dignità umana. Se chi siamo è deciso dalla società, prima di essere qualcuno devi trovarti in un luogo. Il luogo in cui non hai scelto di nascere stabilisce il tuo essere un cittadino o un richiedente asilo, un soldato o un terrorista, un expat o un immigrato, o ancora, un rifugiato.

Non tornavo a casa da tanto tempo. Cinque anni, quasi. E adesso eccomi, dopo aver trascorso alcune settimane in Iran, aver attraversato la Turchia in autobus e poi l’Adriatico su un traghetto, ad approdare ad Ancona. Era bello essere tornato, anche se per poco. La città in cui ero cresciuto era rimasta esattamente come l’avevo lasciata. Fu questione di pochi mesi perché sentissi il bisogno di spostarmi di nuovo, trasferirmi in una nuova città da cui non sapevo cosa aspettarmi. Neanche casa era più una certezza, o forse, era solo che i suoi confini si erano semplicemente allargati.

 

Libri citati nell’articolo:

Franco Farinelli - L'Invenzione della Terra   Becky Cooper - Mapping Mahattan   Tim Marshall - Le 10 Mappe