8 Anni Lontano

8 Anni Lontano

C’è una frase di Susan Sontag, che vedo ripetersi spesso sopra  a quelle immagini di mappe sbiadite che circolano tanto tra Facebook e Instagram, che dice “I haven’t been everywhere, but it’s on my list”. Fino a qualche tempo fa, anche per me ogni posto del mondo era sulla lista. Oggi invece, dopo otto anni in giro, collezionare bandiere e stampi sul passaporto non è più una priorità.

Chi ha letto le pagine di questo blog in passato forse conosce già la mia storia: il 26 gennaio 2010, a vent’anni, parto per l’Australia con l’intenzione di fermarmi qualche mese per un’esperienza di lavoro all’estero. Da quel giorno non sono mai tornato a stabilirmi in Italia ed ho continuato a spostarmi di anno in anno fino a raggiungere Amsterdam, dove vivo adesso. Ho trascorso i primi tre anni tra Australia e Nuova Zelanda, proseguendo successivamente a viaggiare per quasi due anni ininterrotti da un capo all’altro dell’Asia. Sono rientrato in Italia per la prima volta a fine 2014, ma è durata poco. Nel giro di quattro mesi mi ero trasferito in Inghilterra, dove ho fatto base fino per diciotto mesi prima di muovermi verso l’Olanda.

Di storie come la mia, oggi, se ne sentono a centinaia. Di gente che va, che viene, che lascia e che trova, ne è piena la rete. Viaggiare non è mai stato così facile, e probabilmente anche per questo il mio rapporto con il viaggio è cambiato in modo inaspettato: dopo aver passato anni a costruire uno stile di vita che mi concedesse assoluta libertà di movimento, adesso che mi trovo, per la prima volta, nella condizione di poter viaggiare a tempo indefinito non lo faccio proprio perché, paradossalmente, posso farlo. Viaggiare come atto fine a sé stesso è qualcosa che non ho mai trovato molto stimolante. La spinta a muovermi  è sempre derivata dal desiderio di raggiungere l’irraggiungibile, ciò che sta oltre i limiti, le paure, le distanze e la logica.

Di cose in questi otto anni ne sono successe un po’. All’inizio mi sarei accontentato davvero di fare il cameriere dall’altra parte del mondo per qualche mese e poi tornare a casa. Non conoscevo molte persone che lo avevano fatto prima, e la mia ambizione si limitava a riuscire a mantenermi  in un posto diverso, con una lingua e regole diverse. Per quanto semplice fosse l’obiettivo, ero curioso di sapere se sarei stato in grado. Senza partire non avrei mai avuto conferma. Ho sentito tante volte commenti del tipo “Se devi andare fino in Australia a fare il lavapiatti per poter dire di aver vissuto all’estero, che senso ha? Non puoi stare a casa?”. E invece no, stare a casa non funziona per tutti, anche se non è sempre facile da spiegare e all’apparenza è la cosa più ragionevole da fare. Partendo dal basso, forse, si ha sempre di fronte la possibilità di migliorare e a cogliere le opportunità che si presentano non ci si pensa due volte. Io, dal portare piatti a nero in un ristorante di Melbourne, ho cambiato una dozzina di lavori su tre continenti. A 28 anni ho aperto un’attività che mi permette di essere slegato da un luogo fisso, ho pubblicato un libro e mi sto laureando. Per fare questo sono passato dalla Nuova Zelanda all’Himalaya al Kirghizistan, che non sapevo neanche esistesse prima di partire. Alle tappe tradizionali della vita “normale” non ho dovuto rinunciare, ma a capire come farle combaciare con questo continuo spostarsi ci ho messo un po’ di tempo.

Pur avendo rallentato, non ho smesso mai di fare turismo. Mi muovo ancora più spesso della media, anche se ciò che vado a visitare, se non si tratta delle persone con cui mantengo rapporti a distanza, sono luoghi diversi da quelli che mi attraevano quando ho cominciato a viaggiare. Quest’estate, ad esempio, avevo due mesi liberi in cui sarei potuto andare più o meno ovunque nel mondo a patto che ci fosse una connessione WiFi. Che appunto, è più o meno ovunque. Sono andato a Chernobyl, in Transnistria e a casa di Stalin, in Georgia. Nel 2017 sono stato al mare credo quattro ore in totale. Un turismo un po’ cupo, è vero, ma pur sempre turismo. È un po’ come per le foto: una bella immagine oggi non vale più niente, la fotografia è diventata così accessibile a tutti che l’arte non si trova più nella bellezza fine a sé stessa. Senza un messaggio o un’idea di fondo lo scatto perfetto è solo un altro scatto perfetto. Idem per un bel luogo, per la destinazione iconica, così facile da raggiungere, così spesso già vista e così priva di novità, che visitarla non è più una conquista ma solamente un’altra esperienza acquistabile da chi se la può permettere.

Adattandomi a questo costante stato di transito, però, il viaggio stesso è diventato la mia zona di comfort. Se c’è una differenza che trovo confrontando il mio percorso a quello di altri che come me hanno scelto di partire è proprio questa: nel mio caso la narrativa comune del “mollo tutto e parto” non ha alcun valore. Non mi appartiene, perché per me l’essere di passaggio è l’unica realtà che esiste. Ho trascorso quasi tutta la mia vita adulta spostandomi di città in città, di continente in continente, ricominciando sempre da zero e sempre da solo, e non conosco altro modo di fare le cose. Mi trovo a vivere per le piccole conquiste quotidiane e mi accorgo che tornare a casa e riprendere abitudini del passato è spesso più destabilizzante che salire su un autobus e andare fino in Armenia. Tutt’oggi, seppur sia fermo in un posto ed abbia piantato qualche radice, vivo in modo molto minimalista, sapendo già che ci sarà una tappa successiva. È difficile confrontarmi con ciò che c’era prima, in quanto al viaggio devo tutti i miei più importanti rapporti umani, la mia cultura e le mie sicurezze, ma anche cose più materiali, come il mio lavoro, i miei risparmi ed i miei obiettivi. Questa idea dell’essere costantemente di passaggio è diventato il mio modo di stare al mondo e come ogni altra scelta, anche questa comporta dei compromessi.

Vivendo in questa bolla, viaggiare non è più un mezzo così efficace per misurarmi come lo era inizialmente. Dopo otto anni, è diventata una delle cose che faccio e non la sola che mi identifica. La figura del viaggiatore moderno come esempio da seguire, come conquistatore della felicità, è una cosa che trovo un po’ ridicola e sono contento di essermene in qualche modo distanziato.  Girare il mondo oggi è tutt’altro che un’impresa, ma, nonostante ciò, noi che possiamo farlo rimaniamo un gruppo di persone estremamente privilegiato. Di esibire questo privilegio per soddisfare il mio ego ho perso l’interesse, così i miei viaggi sono tornati ad essere una cosa più intima e personale, che non sempre sento il bisogno di condividere.

Sto trovando un equilibrio e sto cominciando a pensare più a lungo termine. Mi accorgo che molti degli eventi che più hanno inciso sulla mia vita non erano programmabili o prevedibili, e per questo tento di lasciare spazio perché più cose “a caso” possano accadere. Nel programmare il futuro non cerco (più) una via da seguire o traguardi da superare, non mi incastro in desideri che cambieranno quando cambierò io, ma piuttosto l’opposto: creo la condizione per poter evitare di sapere quel che farò. Aspetto l’inaspettato, e tutto il resto mi annoia un po’.

  1. Bellissimo articolo, Angelo! Molto vero, almeno per chi (come noi) decide di vivere in questo modo particolare. Quello che dici qui:

    “Mi accorgo che molti degli eventi che più hanno inciso sulla mia vita non erano programmabili o prevedibili, e per questo tento di lasciare spazio perché più cose “a caso” possano accadere.”

    Lo diceva, con parole che sono diventate famose, anche John Lennon nella canzone “Beautiful Boy”…

    L’ignoto spesso ci spaventa, ma alla fine e’ quello che porta emozioni e sorprese inaspettate nella nostra vita. Giustissimo il concetto di lasciare spazio perche’ le cose possano accadere.

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