Per come la vedo io, se stai leggendo questo articolo è molto probabile che tu faccia parte di un gruppo estremamente privilegiato di persone. Anche se lo smartphone che tieni in mano te lo sei guadagnato, e anche se per guadagnarlo hai fatto fatica. Sei privilegiato e neanche te ne accorgi o, almeno, non ci pensi distratto dal fatto che, comunque, c’è chi sta meglio.
C’è sempre chi sta meglio, chi per stare meglio deve sudare di meno, chi sta bene e lo dà per scontato. Pesa ammettere di essere privilegiati, ma utilizzare la relatività a nostro favore è solo un modo per nascondere il fatto che anche chi, come noi, non rientra nella fascia più alta della società, rimane una minoranza avvantaggiata. Lego questo concetto al viaggio per due motivi: perché viaggiando questa realtà è tanto apparente quanto repressa e perché viaggiare, anche in modo frugale, è un’azione che vediamo come un’alternativa più sana al consumismo materiale, anche quando è solo un altro lusso che alcuni possono comprare e altri no.
Quando viaggiavo a tempo pieno una delle critiche che ricevevo più spesso riguardava proprio la mia presunta ricchezza. “Facile viaggiare con i soldi di papà”, “Chi ti mantiene?”, “Anch’io sarei sempre in vacanza se qualcuno mi pagasse lo stipendio” erano commenti comuni, in particolare quando la mia storia riusciva a propagarsi oltre al circolo dei lettori abituali. Inizialmente la cosa mi infastidiva, soprattutto dato che il materiale che pubblicavo in rete voleva promuovere il messaggio opposto: “se l’ho fatto io, puoi farlo anche tu”. Ero orgoglioso dei sacrifici che avevo compiuto e di aver costruito qualcosa da zero, eppure questo non sempre traspariva. Guardandomi intorno, dopo essere entrato a contatto con tante altre persone che come me sceglievano di condividere i propri viaggi a lungo termine, mi resi conto che più o meno tutti, in una forma o in un’altra, si sentivano dire la stessa cosa. I commenti di questo genere venivano interpretati come invidia o frustrazione, o semplicemente come prodotto di una visione ristretta delle cose, e quindi dimenticati.
Ho smesso di raccontare la storia del “se vuoi, puoi” quando mi reso conto che, di fatto, sia io che quelli come me partiamo da una posizione di vantaggio. Coloro che con un velo di rabbia addebitavano i nostri piccoli “successi” ad un privilegio immeritato, non avevano tutti i torti. È vero che tutti possono, ma alcuni possono più degli altri.
Il privilegio non si sceglie, ma è sbagliato darlo per scontato e ancora peggio ostentarlo. Alla figura del viaggiatore moderno, del backpacker, si associa spesso un’idea di ritorno alla semplicità, di fuga degli schemi prefissati, di abbandono delle sicurezze a favore della scoperta, ma non c’è niente di eroico o spirituale nel sentir dire all’ennesima persona giovane, bianca, abile ed in salute “mollo tutto e parto”. Viaggiare, oltre ad essere diventato più semplice che mai in passato, non è essenziale. È un qualcosa che si acquista e si consuma per piacere personale, un’attività a cui solo una stretta minoranza può partecipare. Basta entrare in qualsiasi ostello del mondo per capirlo: quanti ospiti sono europei? Quanti hanno una casa a cui tornare, nel caso qualcosa andasse storto? Quanti hanno un budget, di qualsiasi dimensione, che possono permettersi di dedicare alla propria curiosità? Quanti sono cresciuti in una condizione che ha permesso loro di guadagnarsi i soldi per poter partire?
Leggendo i racconti di viaggiatori che percorrono distanze immense, che si muovono su mezzi di fortuna, che visitano destinazioni remote e continuano a muoversi per mesi, anche io, tutt’oggi, mi chiedo cosa ci sia sotto. Non per invidia, ma perché è chiaro che qualcosa sotto c’è, anche quando non si tratta di ricchezza monetaria. È facile, di conseguenza, capire come la promozione di uno stile di vita di questo tipo possa causare tanta ammirazione quanto fastidio, sapendo che chi viaggia lo fa, semplicemente, perché può farlo. La difficoltà più grande nel compiere un viaggio di lunga durata si trova raramente negli ostacoli della strada, ma più spesso in quel che è necessario per creare le condizioni che rendono la partenza possibile. Condividendo quel che succede durante le proprie avventure si mostra un’immagine parziale e quando si propone il nomadismo come alternativa alla routine quotidiana, il viaggio come scelta di vita, sarebbe opportuno tener conto del contesto che ha reso un passo simile possibile. Altrimenti, quel che si offre è un’illusione.
Il mio modo di guardare al viaggio si è capovolto nel corso degli anni. Alle conferme che speravo di raggiungere non sono mai arrivato. Per dirla tutta, non sono arrivato da nessuna parte: oggi come otto anni fa condivido una casa con altre persone, non ho una macchina, non ho uno stipendio né fisso, né certo, non ho supporto economico e non ho ancora versato un euro nella pensione. Continuo a non possedere granché e continuo a muovermi da un posto all’altro, come posso, quando posso. Ho smesso, in compenso, di porre me stesso al centro della narrativa, cercando di mettere da parte l’ego conscio del fatto di godere di quel privilegio che qui in Olanda mi rende un expat piuttosto che un immigrato: il poter scegliere.