Il Primo Giorno di Russia

Ho sempre avuto un dubbio: è possibile che non mi ammali mai o è più probabile che mi ammali senza accorgermene? Un dottore saranno più di diec’anni che non lo vedo e anche medicinali non ricordo di averne assunti da un bel pezzo. A volte vorrei che il corpo mi desse segnali un po’ più chiari riguardo la salute, ci vorrebbe una spia, o un piccolo altoparlante sottocutaneo che dica “ma dove vai che stai male, fermati un attimo”, che io nell’incertezza procedo sempre e magari non va bene, non lo so . Insomma, stavo facendo scalo a Riga in attesa del volo per San Pietroburgo e mi girava un po’ la testa e da un paio di giorni avevo un po’ di raffreddore e dicevo vabbè, che vuoi che sia, ora passa, e poi proprio mentre ero lì al gate e  stavano per aprire comincia a sanguinarmi il naso e allora ho pensato eh, qui c’è qualcosa che non va, ma anche in quel momento che un segnale abbastanza chiaro lo avevo avuto non mi potevo mica fermare, che non ero né di qua, né di là.

Quindi sono salito sull’aereo, che era un aereo piccolo e neanche pieno, nonostante tutte quelle storie sui Mondiali secondo cui la Russia sarebbe stata sovrappopolata di turisti fino a metà Luglio, e sono partito per San Pietroburgo. Sono partito per San Pietroburgo con aspettative confuse: da una parte ero un po’ intimorito da burocrazia e possibili controlli, in particolar modo avendo applicato per il visto con prenotazioni d’hotel fasulle ed essendo in possesso di biglietti dei treni diretti verso città diverse da quelle in cui avrei dovuto dormire, dall’altra ero curioso di vedere come questa presunta accoglienza nei confronti dei turisti, sponsorizzata dal Governo in vista dell’arrivo di molti nuovi visitatori, si sarebbe espressa.

Alla dogana nessuna domanda, anzi, non vorrei esagerare ma mi è parso persino di aver intravisto un accenno di sorriso nel viso della guardia, in quei pochi istanti tra l’apertura del mio passaporto e lo schiocco del timbro. “Spasiba” gli ho detto, “OK” mi ha risposto con un’espressione degna di un ventriloquo. Insomma è proprio vero, ho pensato, questi russi ci stanno provando seriamente ad esser felici, a parlare inglese, a non guardarti come una spia in missione dall’occidente corrotto. La conferma, poi, è arrivata uscendo dall’aeroporto: ad attendermi vi erano una serie di volontarie in divisa blu, pronte ad aiutare i viaggiatori spaesati ad orientarsi in città con sorrisi a trentadue denti. Però, che bella iniziativa mi son detto, mi accogliessero così all’uscita da ogni aeroporto lo prenderei più spesso l’aereo. Una ragazza mi corre incontro gridando “HELLO!” e io penso accidenti, che entusiasmo questi russi, chi l’avrebbe mai detto vedendo Putin alla televisione, sembran proprio brava gente, che lo facessero per soldi uno direbbe è tutto un teatro, ma queste son volontarie, anime pure proprio, e quindi gli ho detto “Eh, hello” e lei quindi mi ha detto “Sigaretta?” e io “Come?” e lei “Sigaretta? Ce l’hai una sigaretta?” e io “No, non fumo” e lei “Ah” e io “Eh, scusa” e lei “No, va bene” e io “Ma l’autobus per il centro?” e lei “Lì” e io “Si, ma quale?” e lei “Il primo che passa, son tutti uguali” e io “Ah, grazie per l’aiuto, ciao” e lei “OK” e quindi sono andato lì, ho preso il primo autobus, ed era quello sbagliato.

Alcune cose in comune le ho trovate con gli altri paesi un tempo sovietici in cui sono stato. La prima sono le stazioni della metropolitana, che in questa parte del mondo, non so perché, sono sempre molto belle, maestose. Avrei dovuto vederne due, ma prendendo l’autobus sbagliato dall’aeroporto ho avuto l’opportunità di visitarne sette, un po’ perché essendo il mio piano originale disfatto mi son perso, un po’ perché a un certo punto una signora sulla cinquantina mi aveva fermato chiedendomi qualcosa e quando gli ho detto “Niet ruski, io italianski turista”, proprio così gliel’ho detto, lei si è un po’ emozionata, si è sganciata la camicia, mi ha fatto vedere la collana con il suo nome in cirillico che io non ho saputo leggere, ci siamo stretti la mano e quindi mi ha detto “Café?” e io “Come café?” e lei “Café!” e io “Ma dove café?” e lei mi ha fatto segno di seguirla dicendo “Dom” e io “Come dom?”, che per l’appunto avevo scaricato Duolingo e l’unica parola che avevo imparato era dom, cioè casa, e quindi le porte si sono aperte e lei mi ha fatto segno con la mano e io ero lì titubante che pensavo no, dai, mica posso seguire le prima russa che incontro per strada, cioè in metro, e allora nel mentre che titubavo le porte si son chiuse e lei è scomparsa e io sono rimasto lì a pensare che sarei dovuto andare, che chissà cosa sarebbe potuto accadere, che mi sto rammollendo e ai tempi d’oro questa titubanza non si sarebbe mai presentata, che andando si che avrei avuto un primo giorno di Russia degno di essere scritto, e in tutto ciò la distrazione mi ha fatto perdere la fermata e all’ostello alla fine ci ho messo due ore ad arrivarci, invece di quaranta minuti.

L’ostello in cui ho dormito è proprio come mi aspettavo, essendo stato in Ucraina l’anno scorso. Per prima cosa non c’è insegna e trovarlo significa suonare campanelli sbagliati finché qualcuno non apre. Per seconda cosa costa pochissimo, circa quattro euro e di solito non vale più del suo prezzo. Per terza cosa c’è sempre un cinese, solo, in cucina, che mangia i noodles direttamente dalla pentola guardando il cellulare. Che uno pensa sia una barzelletta, ma io un cinese viaggiatore solitario che mangia come nei cartoni animati lo trovo sempre negli ostelli, o almeno così mi sembra. Saranno state le dieci di sera quando sono arrivato, ma a San Pietroburgo non sembrava così tardi, c’era ancora luce.

C’era un solo tifoso. Un peruviano. “Il Perù è uscito” mi ha detto un po’ triste, “Peccato” gli ho risposto io, “Eh sì, peccato” mi ha detto lui. Gli altri, oltre al cinese, erano tutti russi, e il primo con cui mi sono messo a parlare era Emin, che prima mi ha detto di essere di Saratov, poi ha spiegato di essere in realtà ucraino. “A un certo punto ho dovuto scegliere un passaporto, che in Ucraina non se ne possono avere due. Ho scelto quello russo, poi ho lasciato tutto e mi sono trasferito qui” mi raccontava. “Non ti dispiace?” gli ho chiesto, “Mah, no” mi ha risposto, “Ah, ok” gli ho detto io. Emin faceva il cantante professionista, e si era fermato a San Pietroburgo sulla via per Mosca, dove si sarebbe esibito nella Cattedrale di San Basilio, in Piazza Rossa. “Conosco un po’ di italiano, sai, per la musica” mi diceva, “Sono stato a Pisa, a Firenze, a Venezia. Ho un po’ di amici che studiano lì. È bella l’Italia, mi piacerebbe tornarci. Peccato sia così sporca, con tutti quei neri” e allora mi è venuto da dirgli “Eh, ma ora stanno facendo pulizia” che non voleva essere una cosa positiva, ma è uscita così e lui mi ha detto “Ah, bene, finalmente” e io “No, ma intendevo un’altra cosa” e lui “Cosa?” e io “No vabbè, lascia perdere”. Nonostante gli istinti nazisti, Emin sembrava una brava persona. Ci siamo scambiati i contatti, promettendo di rivederci a Mosca, magari ad un suo concerto.

La differenza principale che ho trovato tra gli ostelli in Russia, in Ucraina, in Armenia e quelli in Europa o Oceania, è che in ex-Unione Sovietica la clientela non è composta solamente da turisti stranieri, dai classici backpacker, ma in buon parte da persone del posto che si spostano per lavoro, per studiare, o più in generale, per necessità. C’è un’atmosfera diversa negli ostelli di questa parte di mondo, che forse non sempre spinge a socializzare, ma in compenso mette a stretto contatto persone dalla storia completamente diversa. Qui non si trovano solo ventenni di classe media in un periodo sabbatico, ma anche gente che migra, che si sposta perché deve spostarsi, che parte e che torna senza il desiderio di pubblicare su Instagram quel che si trova sulla via. L’ostello dell’est è un ecosistema curioso, con abitanti che se non fosse per il prezzo così basso dei letti avrebbero poco da condividere.

Alec stava bollendo due patate. “Hai mangiato?” mi chiede. Veniva dai sobborghi di Mosca, lavorava come web designer in remoto ed era diretto verso il Keralia, tra le montagne, per partecipare al Rainbow Gathering. “Starò lì qualche giorno, forse una settimana. Poi devo scendere che senza internet non posso più sopravvivere. Che fastidio” mi raccontava. “Andavo spesso in India, almeno tre mesi l’anno. Adesso il Rublo è calato, vale più o meno quanto la Rupia. È complicato. La vuoi una patata?”. In cucina poi sono arrivati altri due russi, di Samara, che si son messi a friggere salsicce. Si era già fatta l’una di notte. “E tu dov’è che vai?” mi chiede Alec, “Pensavo di salire su, fino a Murmansk, poi scendere da lì, verso l’Iran” gli ho spiegato. “A Murmansk? Che ci vai a fare?”, “Perché?”, “È un posto di merda”, “Ah”.