Il Secondo Primo Giorno di Iran

Il confine tra Azerbaigian e Iran è tra i peggiori che ricordo di aver superato. Da Lankaran, l’ultima tappa azera, un autobus mi porta fino al confine per cinquanta centesimi, fermandosi appena prima della frontiera. Uscendo a piedi una lunga fila disordinata viene fatta procedere a gruppi di quattro o cinque persone alla volta. La pazienza paga e dopo circa un’ora raggiungo gli ufficiali di dogana, che dopo i soliti controlli mi lasciano passare. Le difficoltà arrivano dal lato iraniano, dove una fila vera e propria non esiste. C’è, invece, un passaggio ad imbuto a cui centinaia di viaggiatori tentano di accedere contemporaneamente a forza di spintoni, sacrificando qualsiasi concetto di spazio personale per guadagnare un centimetro in più. Nella calca parallela alla mia vedo due donne svenire. Una bottiglia d’acqua viene passata di mano in mano, galleggiando sulla folla, mentre i vicini sventolano passaporti verdi chiedendo di lasciar passare un po’ d’aria. Le guardie, prive di espressione, continuano a timbrare passaporti ai vincitori di questa gara dalle loro cabine colme di cartacce, biscotti, tazze vuote e bottiglie d’acqua non più così fresca. Due ore di attesa e tocca anche a me. “Bentornato in Iran” mi sento dire da dietro il vetro da cui sbuca il mio passaporto stampato.

Avevo dato per scontato di avere una connessione ad internet nell’ultimo ostello prima del confine, di modo da poter organizzare le tappe successive prima di ripartire. Nell’ostello di Lankaran però, non è che mancasse solo il WiFi, mancava proprio l’ostello: c’era piuttosto un edificio di cemento privo di insegna e ancora in costruzione situato alla fine di una via sterrata a quattro chilometri dal centro in cui un uomo aveva messo quattro o cinque letti e pensato bene di chiamarlo ostello, e non dico in senso generico, su Booking la struttura, che vantava un punteggio di ben 8.4 basato sulla valutazione di un ospite singolo e per niente sospetto, si chiamava proprio “Ostello”.  E nell’ostello non c’era internet, non c’era acqua calda e soprattutto non c’era nessun altro ospite oltre a me, cha avevo prenotato senza pensarci due volte, guardando come è d’abitudine al prezzo e nient’altro.

L’unica cosa che ero riuscito a fare, collegandomi da un bar, era stata mettere un annuncio su Couchsurfing dove dicevo che mi sarei trovato a Rasht tra il tre ed il cinque di Agosto. Il giorno successivo avevo ricevuto sedici messaggi. Le offerte di ospitalità arrivavano da diverse parti dell’Iran, con ragazzi e famiglie che mi chiedevano di contattarli nel caso fossi passato dalla loro città. All’ingresso in Iran supero il grande cancello sotto gli occhi dell’Ayatollah Khomeini, che da un cartellone dà il benvenuto ai nuovi arrivati. Raggiungo la piccola stazione dei taxi della città di Astara, nome condiviso dalla località di frontiera del lato azero, e aspetto un’ora o due che vengano trovati altri passeggeri per riempire l’auto. “Come mai sei tornato?” mi chiede un signore quando gli dico che è la mia seconda volta in Iran, “Non so, non ho un motivo, mi piace qui” gli rispondo, “Portate un altro tè!” urla l’uomo. Al quarto chai la macchina è piena ed è l’ora di partire. Ci salutiamo scambiandoci i contatti di Instagram, una delle poche piattaforme digitali ancora non bloccate.

Una ragazza mi dà appuntamento davanti ad un bar in centro città, dove arrivo percorrendo la costa in circa tre ore. Trovato il bar, aspetto mezz’ora, senza sapere bene se qualcuno sarebbe arrivato. Ma ancora una volta, vale la pena attendere. Motti arriva sorridendo sotto un hijab verde pastello, mi stringe la mano e cominciamo a camminare. Ha trentun’anni, è un architetto alla ricerca di un lavoro troppo difficile da ottenere a Rasht e mi ospita a casa dei suoi genitori mentre questi sono via. “Mi piacerebbe accogliere più viaggiatori, ma i miei non vogliono, hanno paura succeda qualcosa. Cosa mai potrebbe succedere?” mi dice “Adesso se ne sono andati, così ti ho invitato, insieme a dei miei amici. Speriamo solo che i vicini non ci vedano!”.

La prima tappa è una caffetteria fumosa situata al primo piano di un edificio anonimo dietro la via pedonale. C’è un uomo che suona il pianoforte, qualche lampada accesa e le persiane socchiuse. Motti ordina due mojito, nome che qui viene dato al frullato di limone, mela e menta. Un cameriere ci serve, ma giusto il tempo di appoggiare le bevande sul tavolo che le riprende e le riporta in cucina. Dopo un minuto è di nuovo da noi, dicendo “Mi sono accorto che sei straniero, ho aggiunto un goccio d’alcol”.

Circa un mese fa il valore del Rial è crollato. Ho cambiato cinquanta euro ricevendo oltre cinque miliardi. Un piatto nel miglior ristorante in cui abbia mangiato in questo viaggio, supera di poco l’euro, una zuppa di yogurt ed una passata di melanzane con riso per il prezzo di un caffè. La benzina costa meno di dieci centesimi al litro e le tre ore di viaggio in macchina fino a Rasht vengono circa tre euro. La situazione è favorevole per me, ma non per gli iraniani “Ospito i viaggiatori perché non posso viaggiare io” mi dice Motti, “da qui ce ne vogliamo andare tutti, ma è difficile con questi soldi che non valgono niente”. I suoi amici sono nella stessa situazione. A casa veniamo raggiunti da una coppia che si sta per sposare, per poi procedere al trasferimento in Canada o in Nuova Zelanda. “Siamo sulla lista per il Canada già da un anno. Abbiamo tutti i punti per prendere il visto, ma dobbiamo aspettare chissà ancora per quanto. L’unica cosa positiva qui è che possiamo guidare ovunque” mi spiega Sina ridendo, “ma questo è l’ultimo anno che stiamo in Iran. Se non ci accettano in Canada proviamo in Nuova Zelanda, almeno come meta temporanea. Lì dovrebbe essere un po’ più semplice. Basta andare via, di questi pazzi col turbante non ne posso più”.

Motti vive in una casa molto elegante, con ampie poltrone, tappeti a coprire il pavimento ed un capiente samovar d’ottone posizionato su un fuoco lento e permanente dal quale rifornirsi di chai quando necessario. Per gli amici un materasso è stato posizionato in soggiorno, mentre io ho a disposizione una camera privata, con tanto di aria condizionata. Facciamo tardi parlando, giocando a carte. Verso le tre, con un film in sottofondo, gli occhi cominciano a chiudersi. “Andiamo a letto, che domani c’è da guidare”, “Dove andiamo?”, “Ti portiamo sul Caspio, poi, se ce la facciamo, saliamo in montagna. Ci sono tante cose che vogliamo farti vedere”.