La Morte di un Centro Commerciale: intervista al fotografo Phillip Buehler

Il centro commerciale abbandonato di Phillip Buehler

Quando Marc Augé coniò il termine “nonluoghi“, tra i principali esempi di spazi tipici della supermodernità c’erano i centri commerciali. Luoghi di passaggio prodotti dalla globalizzazione, dove le persone rinunciano alla loro identità per qualche ora in cambio di un’esperienza di shopping funzionale e standardizzata. Camminare tra scaffali ordinati e pieni di confezioni colorate non è, di solito, un’attività memorabile, ma la rilevanza storica dei centri commerciali nella cultura del consumo americana rende questi posti tutt’altro che anonimi. La percezioni di questi spazi però sta cambiando, con i negozi fisici in declino, sostituiti da vetrine virtuali con la loro selezione infinita di prodotti.

Phillip Buehler cattura luoghi abbandonati dal 1973. Mentre molte delle sue serie precedenti, incentrate sulle infrastrutture militari dell’era della Guerra Fredda, aprono una finestra su storie del passato, il fotografo newyorkese ha recentemente spostato l’obiettivo verso il contemporaneo. La sua attrazione per l’abbandono lo ha spinto verso il suo ultimo progetto, Mallrat to Snapchat: The End of the Third Place, dove l’architettura fatiscente del Wayne Hills Mall di Wayne, nel New Jersey, è incorniciata per documentare come cambia il presente.

Forse c’è un nuovo tipo di nonluogo che sta emergendo, quello digitale; lo spazio virtuale modellato sui dati che trasforma le comunità di persone in utenti, in target. I “luoghi terzi”, luoghi d’incontro per l’interazione e la vita pubblica, si stanno muovendo online. I centri commerciali negli Stati Uniti sono quadruplicati tra il 1970 e il 2010, e le immagini di degrado di Buehler compongono una collezione che è al contempo inquietante e nostalgica. Simboli arrugginiti si vedono scomparire mentre i detriti si accumulano sui pavimenti deserti dell’edificio, trasformando questo tempio del consumo in una “rovina moderna” che mostra tanto quanto nasconde.

Sono più di 40 anni che fotografi luoghi abbandonati. Come è iniziato tutto? Cosa ti ha attratto per la prima volta alle “rovine moderne”?

Essendo cresciuto nel New Jersey negli anni Settanta, i luoghi abbandonati  erano il modo più semplice per avvicinarmi all’altrove. Fin da piccoli, io e i miei amici andavamo in bicicletta as esplorare. Quando ho preso la patente, ho cominciato ad avventurarmi più lontano. Nello stesso periodo ho anche comprato la mia prima macchina fotografica 35mm. La prima rovina che ho fotografato è stata l’allora abbandonata Ellis Island. Avevo 17 anni. Un amico ed io andammo in barca a remi per girare un film su pellicola da 16mm, per documentare le rovine. È stato allora che la mia passione è nata. Più tardi ho fotografato molto in giro per New York City – dai resti dell’Esposizione Universale del 1964/65, a North Brother Island, i moli abbandonati, Steeplechase Park. In ogni luogo, ho sempre trovato elementi a cui mi sentivo legato personalmente. Attraverso le mie fotografie ho cercato di riportarne un po’ nel presente.

Il tuo progetto più recente “Mallrat a Snapchat: The End of the Third Place” mostra la caduta di un singolo centro commerciale nel New Jersey, ma sembra che ci sia qualcosa di più grande in gioco.  Come è nata l’idea di questo progetto? Con cosa sta venendo sostituita la “cultura del centro commerciale”?

Quando fotografo un posto, faccio sempre un tuffo nella sua storia per capire veramente cosa è successo. Fatto questo, vado alla ricerca di un nuovo soggetto. Non avevo mai fotografato un centro commerciale abbandonato quando ho sentito parlare del Wayne Hills Mall. Era solo a un paio d’ore di macchina, ci andavo quando ero al liceo. Durante il mio primo sopralluogo, ho visto il negozio di dischi Sam Goody vuoto. Avevo passato passato molto tempo al Sam Goody in gioventù, e mi ha fatto tornare in mente molti ricordi di quando andavo al centro e sfogliavo gli album con gli amici.

Dopo quel primo viaggio mi sono immerso negli archivi dei giornali e ho scoperto che il centro commerciale ha aperto nel 1973, lo stesso anno in cui ho preso la patente di guida. Avevo anche letto il libro del sociologo urbano Ray Oldenburg, The Great Good Place, in cui nasce il termine “terzo luogo“. Il “primo” posto è la casa, il “secondo” posto è il lavoro, e i “terzi” posti sono spazi pubblici, come pub e centri commerciali, dove interagiamo e costruiamo comunità. Con i centri commerciali che muoiono in tutto il paese, ho pensato che avremmo potuto perdere qualcosa di importante. E questo è diventato il tema attorno al quale mi sono avvicinato in questa serie. Con i centri commerciali che muoiono e la gente che si sposta su Snapchat, ci sono meno opportunità di connettere faccia a faccia. Volevo andare oltre una tipica mostra di fotografia per trasformarla in un’installazione, e ho lavorato a stretto contatto con i galleristi Daniel Aycock e Kathleen Vance durante il suo sviluppo.

Il “terzo luogo”, quindi, sta diventando virtuale? O sta scomparendo completamente?

Ci saranno sempre “terzi luoghi” come i pub. Harold Schultz, fondatore di Starbucks, ha modellato la sua attività sul libro di Oldenburg, ma la chiusura di così tanti centri commerciali (e il loro declino in generale) è una perdita. Penso che le comunità online abbiano un ruolo importante, ma non possono sostituire la connessione personale.  Penso alla mia esperienza: su Facebook vedo solo il feed di amici i cui post mi “piacciono”, mentre i post di conoscenti con un’altra visione politica appaiono raramente perché l’algoritmo di Facebook decide che non sono interessato. Viviamo nella nostra bolla. Sarebbe bello se i repubblicani e i democratici si incontrassero alle partite di calcio dei loro figli, o in un pub, o al centro commerciale.

Come si relaziona questo progetto rispetto ai tuoi lavori precedenti?

La mia ultima mostra era intitolata “(un)thinkable” e riguardava i resti della Guerra Fredda. Mentre per “Mallrat to Snapchat” è trascorso solo un anno dallo scatto delle immagini alla mostra, le foto in “(un)thinkable” sono state raccolte nel corso di vent’anni. Dai miei primi viaggi a Cape Canaveral e all’Airplane Graveyard, ai recenti viaggi ai silos missilistici Titan II in Arizona e alle basi missilistiche Nike a New York City.

“Mallrat a Snapchat” mi ha riportato a quando avevo 17 anni. Con “(un)thinkable”, invece, sono tornato a quando avevo 7 anni e facevamo le esercitazioni di “duck and cover” durante la crisi dei missili di Cuba. Il tema di “Mallrat a Snapchat” è il perdere i contatti con la comunità, mentre “(un)thinkable” parlava di dimenticare la storia mentre il presidente Trump faceva il suo discorso “fuoco e furia”, minacciando la Corea del Nord con le armi nucleari.

Per la mostra “Mallrat to Snapchat” ho usato la musica per riportare la gente indietro nel tempo. Per quella di “(un)thinkable” avevo un contatore geiger in galleria che scattava continuamente sopra una piastra Fiestaware rossa radioattiva e un telefono rosso dal quale si poteva ascoltare il discorso del presidente Kennedy sulla crisi dei missili di Cuba e subito dopo l’annuncio “fuoco e furia” di Trump.

Come hai visto la fotografia urbex cambiare nel corso degli anni? Forse è solo un’impressione, ma mi sembra che l’interesse per i luoghi abbandonati sia cresciuto in modo massiccio negli ultimi anni. Qual è stato l’impatto di piattaforme come Instagram nel tuo lavoro?

Quando ho iniziato a scattare, non c’era nessun altro a parte me e il mio amico del liceo Steve Siegel a farlo.  Ci riversavamo sulle mappe topografiche Hagstrom e cercavamo luoghi interessanti dove poteva esserci uno spazio abbandonato, ad esempio seguendo binari ferroviari in disuso che potevano portare a una fabbrica. Oppure andavamo in biblioteca e cercavamo tra i vecchi giornali. Non c’era modo di cercare “edifici abbandonati” su Google, vederli su Google Earth o Street View, e poi guidare usando il GPS. Inoltre fotografavo su pellicola, che oltre ad essere costoso rendeva difficile ottenere una fotografia ben esposta in uno spazio buio. Oggi scatto in digitale, è molto più facile ottenere una foto tecnicamente buona. Ho costruito il mio sito web nel 1995 per condividere le mie immagini, ma anche questo è molto più semplice con Facebook e Instagram. E con servizi di stampa su richiesta come Blurb, tutti i fotografi possono stampare i loro libri, cosa prima quasi impossibile.

Il grande interesse per i luoghi abbandonati è sia positivo che negativo. Il lato positivo è che l’attenzione può aiutare la conservazione storica, o far incontrare persone con passioni condivise, o ricordare alla gente ciò che rischia di scomparire. Le fotografie sono innatamente interessanti, e un fotografo di urbex che si immerge nella storia di un luogo può creare una narrazione che sicuramente ha qualcosa da dire sulla nostra cultura.

Il lato negativo si trova nel “ruin porn”, ovvero fotografare un posto per attirare l’attenzione sul fotografo e non sul luogo. A volte sembra che l’interesse sia solo quello di ottenere un selfie da pubblicare su Instagram per mostrare quanto si è audaci. Diversi fotografi di urbex che conosco non riveleranno la posizione di luoghi meno conosciuti per paura che vengano invasi da persone che non rispettano il luogo e possano contribuire a distruggerlo. Per esempio, ho fotografato un vecchio pianoforte che si trovava in un reparto ospedaliero abbandonato dove il cantautore Woody Guthrie era un paziente; quando sono tornato la seconda il pianoforte era stato fatto a pezzi. C’erano dei graffiti sul muro del reparto di Guthrie, e sono contento che nessuno fosse stato lì con una bomboletta di vernice spray prima di me.

E cosa ne pensi invece del crescente interesse per il “dark tourism“? Ci sono questioni etiche nel fotografare/condividere/visitare luoghi dove la storia ha lasciato un segno negativo?

È interessante che tu me lo chieda, sono anni penso di andare a Chernobyl e Fukushima, ma ora mi chiedo se posso davvero aggiungere qualcosa a queste storie. Tuttavia, sono sicuro che me ne andrei cambiato, e forse potrei condividerlo con altre persone.

C’è un ruolo per questi luoghi storici, ma oscuri, come i bunker a Normandy Beach o i tour in autobus attraverso il cimitero degli aerei, o il Memoriale della Pace di Hiroshima, o un campo di concentramento. Ma non credo che la gente dovrebbe visitarli solo per curiosare. Ecco perché è così importante inserire le foto in un contesto storico o culturale.

Un posto che ho fotografato sperando che si salvasse è Greystone Park, l’ex ospedale psichiatrico di Morris Plains, nel New Jersey. Non è stato solo il luogo in cui Woody Guthrie era un paziente (e dove ha incontrato per la prima volta Bob Dylan), è stato anche il luogo del primo test su larga scala dell’efficacia delle lobotomie. Quello studio ha contribuito a porre fine a questa orribile pratica. Le mie fotografie sono ora l’unica documentazione della sala operatoria.


Le fotografie di Phillip Buehler si trovano sul suo sito web, Modern Ruins.