Vacanze a Lankaran

Dall’Azerbaigian me ne sono andato con poche fotografie, vuoi che ero solamente di passaggio, vuoi che i luoghi visitati non mi hanno poi entusiasmato più di tanto o vuoi che si sopravvive anche non facendone di foto, a volte.  Da Lankaran in particolare, però, di scatti non ne ho portato a casa neanche uno.

Lankaran, avevo letto da qualche parte, è considerata una “resort city” in Azerbaigian, che non so con esattezza cosa voglia dire, ma quando sento resort io penso alle palme e quando penso alle palme penso alle noci di cocco da cui spuntano cannucce a spirale rosse e bianche e quando penso alle noci di cocco da cui spuntano cannucce a spirale rosse e bianche penso alla spiaggia e quando penso alla spiaggia penso alle onde, alle amache, alla sabbia che brucia, ai vù cumpra, alle donne in topless e così via. Non vado spesso al mare. Insomma, avevo deciso di fermarmi a Lankaran in parte a causa di queste idee di seconda mano che mi giravano per la testa e in parte perché prima di entrare in Iran avevo bisogno di fare una sosta ed organizzarmi, che per entrare in Iran si sa, un po’ di organizzazione ci vuole.

Ero partito da Baku al mattino presto, pronto ad affrontare la mezza giornata di viaggio lungo la costa, raggiungendo in metro l’Avtovokzal, il terminal internazionale degli autobus a nord-ovest della città. Per prima cosa vengo indirizzato alla biglietteria numero dodici, dove una calca di persone pressata come una molla pronta a scattare contro il vetro che protegge la cassa sventolava banconote urlando nomi di città mai sentite prima. Mi infiltro nella folla scuotendo lo zaino nel fallimentare tentativo di guadagnare spazio e noto poco distante un francese (ndr. zaino Quechua e maglietta a righe bianche e blu: pronostico incontrovertibile) anche lui inerme di fronte alla pressione dello sciame. Con uno scambio di sguardi capiamo che l’unica possibilità di successo sta nell’unire le forze per rendere la nostra minoranza una minoranza meno minoritaria, aumentando così le probabilità di conquistare un biglietto e lasciarci per sempre questa stazione alle spalle. Non è così.

Per capire dove comprare il biglietto avevo chiesto all’autista dell’autobus diretto a Lankaran parcheggiato all’esterno, riconoscibile per il cartello con su scritto LANKARAN esposto dietro al parabrezza.  Alla biglietteria, però, mi viene detto che non esiste nessun autobus per Lankaran, ma solo un autobus per Astara, una cinquantina di chilometri più avanti. Così io dico che “no, guarda, è lì fuori ci ho parlato io con l’autista, mi ha detto anche dai, sbrigati che poi partiamo”, ma l’impiegata mi dice “no, no, ti sbagli, per Lankaran non c’è nessun autobus, se vuoi compra il biglietto per Astara poi magari senti l’autista se ti lascia a Lankaran, che è sulla strada”. A questo punto, oltre alle braccia sudate che mi strusciavano sul collo per consegnare soldi alla bigliettaia in cambio di biglietti che venivano venduti senza obiezione alcuna, cominciava ad infastidirmi anche la puzza di truffa che da sotto il vetro protettivo della cassa iniziava a diffondersi. Ero quasi certo che questo non fosse altro che un tentativo di vendere a noi stranieri il biglietto più costoso, sapendo che comunque trovandoci a destinazione saremmo scesi senza protestare.

Nota: È giusto notare che tale raggiro poteva consistere al massimo in un’ammontare di cinquanta centesimi, ma come dico sempre quando vengo derubato di cifre microscopiche di denaro, è questione di principio.

Continuando a sentirci dire che non vi erano biglietti in vendita, insieme al francese decidiamo di uscire per trovare un mezzo alternativo . Parliamo con alcuni tassisti, ma i prezzi sono proibitivi. Proibitivi per un azero intendo, non per noi che con venti euro in Europa faremmo si e no dieci chilometri. Il francese, quindi, decidere di prendere il taxi. Io rinuncio all’offerta e rimango alla stazione, pensando che con tutto il giorno davanti troverò un altro modo per raggiungere Lankaran, le palme, le amache e le noci di cocco, le donne in topless. Che i sogni uno se li deve guadagnare, mica ci può arrivare in taxi.

Prima di prendere in considerazione fermate intermedie o passaggi in autostop, decido di tentare ancora con l’autobus. Torno alla biglietteria selvaggia e, a testa bassa, slitto tra i corpi sudaticci fino a raggiungere la cassa. “Lankaran”, dico. “Sì, certo, ecco il biglietto, sono sei manat”, mi dice la bigliettaia. Compro il biglietto. “Ma un’ora fa non c’era?” le chiedo, “Eh no, non c’era un’ora fa” mi dice. “Ah” le dico. Si vede che l’autobus non è pieno e deve partire. Così sono sull’autobus, finalmente, diretto verso sud con l’aria condizionata che mi asciuga la fronte. Mi piace viaggiare in autobus. La pace del muovermi stando fermo. Quasi sempre, non importa quanto malmessa sia la strada, mi addormento, dimenticando l’ansia del dover trovare qualcosa fare. Costretto al mio sedile, accetto il niente che accade. Quasi sempre, ma non questa volta. Perché questa volta l’autobus si rompe dopo aver percorso neanche due ore di strada. Non è chiaro cosa si sia guastato, ma tutti, uomini, donne, bambini, scendono subito ad offrire consulenze meccaniche dal bordo della strada. Aspettiamo. Qualcuno, conscio dell’improbabilità di ripartire in un futuro prossimo, ferma una macchina e scompare all’orizzonte. L’autista ed il suo assistente toccano, smontano, osservano, scuotendo la testa e, presumo, bestemmiano con giusta causa. Dopo un’ora, sporchi di morchia, si siedono sull’asfalto a contemplare la disfatta.

A mezzogiorno un secondo autobus diretto a Lankaran si ferma in nostro soccorso. Saliamo in fretta, desiderosi di fuggire dal sole che picchia e di metterci nuovamente in moto verso la nostra destinazione. Adesso, è scontato dire che il secondo autobus non aveva calcolato di dover contenere il doppio della sua capienza, quindi ognuno trova posto dove meglio può. Io, ad esempio mi rifugio nello spazio di fronte al portellone posteriore, racchiuso tra tre ragazzi diretti al matrimonio di un amico. Ad occhio saremo novanta persone, compatte per le successive quattro o cinque ore, che poi saranno sei, all’interno di un mezzo che secondo ogni standard di sicurezza può ospitarne cinquantadue, o giù di lì. Al minuto uno di questo tragitto cominciano le domande da parte dei miei vicini. “Cosa ci fai qui? Traffichi droga? No? Ne vuoi trafficare?”. Uno dei miei compagni fa il profumiere, l’altro è un militare, l’altro non ho capito. “Non sei sposato? Perché no? Perché questi tatuaggi? Che brutti che sono. Toto Cutugno lo conosci? E Celentano? E Cannavaro?”.

Pro-tip: se mai vi trovaste in Asia Centrale nel bel mezzo di un silenzio imbarazzante, citate Toto Cutugno, Ambasciatore d’Italia nell’Est, per riaccendere immediatamente la conversazione.

Alla fine a Lankaran ci arrivo. È sera. Avevo prenotato un’ostello, che era quello che costava meno su Booking per il semplice fatto che era l’unico ostello su Booking. L’ostello, su Booking, poi, si chiamava “Ostello”. E nonostante il minimalismo in quanto ad informazioni fornite, devo dire che l’ostello Ostello non la raccontava del tutto giusta. Per prima cosa, ad esempio, non era proprio un’ostello come lo si immaginerebbe dal nome Ostello. Era (come ho già raccontato qui), un edificio in costruzione, dove una stanza era stata arredata con quattro letti singoli, fotografata con un telefono e quindi finita su Booking. L’altra discutibile verità era l’indirizzo, che non sembrava esistere né nel mondo reale, né in quello virtuale. Vi era un’indicazione vaga, uno screenshot di una cartina sulla quale era stata disegnata una linea rossa ad indicare il percorso dalla stazione. Una mappa del tesoro, ma senza tesoro.

Giro tra case, officine, cani randagi chiedendo ai pochi passanti di rintorno dal lavoro. Mi viene indicato il cancello di fronte ad un edificio in cemento grezzo. Busso, e non sentendo risposta all’eco metallico, entro. In giardino, di fronte a me, c’è un uomo a petto nudo seduto ad un tavolo con una sigaretta accesa in mano. “È questo l’ostello Ostello?” gli chiedo, e lui “Sì” mi fa, “ti aspettavo”.

“Guarda, per la doccia è meglio se la fai domani” mi dice Qeni “che di acqua calda qui c’è n’è poca”. “Anche internet, forse domani funziona, oggi no”. Ci sono solo io qui. Non ricordo come si faceva a vivere senza WiFi, eppure per anni ho viaggiato senza uno smartphone. Davvero, com’è che si faceva? Altri tempi. Sono a quattro chilometri dal centro città e non sono in vena di perdermi, visto che si sta già facendo tardi. C’è un piccolo ristorante a cento metri di distanza, dove entro e arriva un piatto di riso con pollo, prima che io possa ordinare. C’è solo quello sul menù, inutile fare richieste. Mangio e torno da Qeni, che sempre lì, sulla sua sedia di plastica in giardino, mi chiede se voglio una birra, che è mercoledì e siamo quasi nel finesettimana.

Qeni, vent’anni fa, lavorava nel KGB. Parlandomi in russo attraverso Google Traduttore, mi racconta dei tempi in cui era impiegato negli uffici di Baku dei servizi di sicurezza sovietici. “Bei tempi erano quelli” dice. Poi le cose, come si sa, sono cambiate ed è stato costretto ad interrompere la sua carriera nella capitale. È tornato a Lankaran, la sua città di origine. “Fumi?” mi chiede allungando le sigarette. Ci sono tanti buchi nella sua storia, capisco che di alcune cose preferisce non parlare, mentre altre vanno perse nel cellulare. Ad un certo punto ha messo su una famiglia, che non è chiaro dove sia finita, per poi cominciare a progettare il suo trasferimento in Germania. A suo figlio sta facendo studiare il tedesco. “A Lubecca o a Dusseldorf, lì sì che si sta bene. Appena avvio l’Ostello vendo tutto e me ne vado in Germania”. Noto però che dall’inizio della nostra conversazione sono passate due birre, due mele, un pacchetto di patatine e tre bicchieri di vodka, quindi, considerato che dormire qui costa cinque euro e che a dormire qui ci sono solo io, consiglio a Qeni, sottovoce, di rivedere un attimo il suo piano di business.

La mattina esco e con una marshukta raggiungo Lankaran centro. Non ci sono né palme, né amache, né noci di cocco o donne in topless. Non c’è un granché, in generale. La vita si espande a partire dal bazaar, dove monti di frutta, verdura, carne e pesce tantano di essere salvati dall’attacco delle mosche. Superata la piazza centrale non è altro che un ripetersi di edifici residenziali. Una spiaggia da qualche parte dovrebbe esistere, ma non ci arrivo mai. Mi rendo conto ben presto che anche quest’anno al mare andrò l’anno prossimo. Un tassista abusivo mi ferma, vuole farmi da guida. Gli rispondo che cerco solo qualcosa da mangiare, di girare a vuoto non ne ho nessuna voglia. In Azerbaigian, come in buona parte dei paesi di questo angolo di mondo, dove c’è domanda, c’è offerta. Se cerchi un ristorante, spunta un ristorante. Il vecchietto mi accompagna dietro l’angolo, scambia due parole con il titolare e mi lascia lì. Io mi siedo, mangio di gusto, vengo spudoratamente truffato e poi me ne vado, deluso in parte per aver visto la mia fiducia tradita nell’esatto istante in cui ho abbassato la guardia, ma impressionato al contempo dall’arguzia del nonno che in pochi minuti è riuscito a passare dal proporre un tour del nulla a contrattare una commissione con il primo ristoratore incrociato per strada.

L’unico posto per me in questa città ostile sembra essere il giardino di Qeni. Senza acqua calda, senza WiFi, ma riparato dal sole e dalle frodi, se non quella fiscale in cui io, almeno, non sono coinvolto. Lascio che questa giornata scorra, dormendo, leggendo, fino a che non mi sento chiamare da Qeni. “Vieni, vieni che ti faccio vedere una cosa”. Usciamo dal cancello e mi porta alla sua Volga, che avrà almeno trent’anni. “Una Volga” gli dico come se me ne intendessi “Bella, non ne fanno più di macchine così”. “Ma no, mica la macchina, sali”. Salgo e in dieci minuti arriviamo al pub del Khan Lankaran Hotel. Entriamo e una volta seduti gli chiedo “Allora, cos’è che volevi farmi vedere?”, “Questo” mi dice, “Il pub. Un giorno ne avrò anch’io uno così. A Dusseldorf. Due birre e due vodka per favore!”.